Una ricerca effettuata all’inizio dell’anno ha provato a indagare la percezione dell’etica professionale dei giornalisti italiani, e la loro effettiva possibilità di rispettarla nella pratica di tutti i giorni. L’indagine è stata realizzata da Astra ricerche per conto dell’Ordine dei giornalisti tra il 7 e il 19 gennaio 2013 tramite 1.681 interviste online inoltrate a un campione di giornalisti italiani (il 58 per cento professionisti, il 35 per cento pubblicisti, il 7 per cento praticanti o altro). Il risultato di sintesi è che vi è tra gli intervistati un’alta considerazione dell’importanza etica di determinati comportamenti e principi nella professione, ma d’altra parte è invece molto scarsa l’effettiva possibilità di metterli in pratica nelle diverse realtà redazionali. Segno che nel complesso gli addetti all’informazione italiana sono ben consapevoli di ciò che dovrebbero fare, ma poi non si sentono nelle condizioni di poterlo fare. Non è nuova la storia dell’autocensura come freno all’informazione ben più pericoloso della censura vera e propria. È più o meno la differenza che passa tra il chiedere il permesso di fare qualcosa e il non chiederlo presumendo che la risposta sarà negativa.
Vediamo cosa c’è scritto nel documento di sintesi della ricerca. In testa a tutti i comportamenti virtuosi del giornalista, secondo gli interpellati, c’è l’evitare di fornire informazioni false o inesatte (97,7 per cento), ma poi la stessa cosa non trova riscontro nelle pratiche redazionali, se è vero che lo stesso obiettivo è perseguito solo nel 23,3 per cento dei casi. Anche sul fronte delle logiche commerciali si segue una morale schizofrenica, per cui in teoria è molto importante evitare di fornire informazioni, giudizi e consigli nel solo interesse degli investitori pubblicitari, senza esplicitare tale interesse (82,2 per cento), ma poi in pratica quasi nessuno se ne preoccupa (13 per cento) – sorte simile tocca agli interessi di gruppi politici e sociali e dell’editore.
Una visione che conferma ciò che da tempo si sa, ossia che per affrontare l’informazione italiana, il lettore dev’essere “corazzato”, ossia dotato delle lenti necessarie a decodificare il messaggio che arriva dai media. Essere chiari e comprensibili, evitando testi e immagini oscuri o equivoci, è peraltro un’altra delle preoccupazioni dei colleghi (88,9 per cento), che però trova riscontro solo nel 17,6 per cento dei casi. Il quadro che deriva da tale risultato è di un settore i cui professionisti non sono messi nelle condizioni di lavorare secondo i principi deontologici che dichiarano di conoscere e tenere in conto. Direttori ed editori (ma anche gli stessi giornalisti, che in molti casi hanno le loro responsabilità) dovrebbero riflettere su come sia possibile che gli organi di informazione, che dovevano ergersi a “cani da guardia” dei poteri (definizione che arriva dal mondo anglosassone, e infatti non siamo mai riusciti a farla nostra), abbiano ceduto a logiche diverse e contrarie ai principi dell’informazione. Alla prova dei fatti, il giornalista dichiara di percepirsi come un ottimo controllore (95,1 per cento), ma quale etica difende un professionista che opera con mille paletti che ne limitano la libertà d’azione? Vi lasciamo con questa domanda, e aggiungiamo una piccola postilla. In fondo al documento di sintesi si legge: «L’immensa mole di informazioni ricavabili da questo ampio studio (più di 500 tabelle, grafici, ‘torte’) è consultabile presso il Consiglio nazionale dell’Ordine dei giornalisti». Bisogna andarci di persona, nessuna possibilità di scaricare i dati dal web. Alla faccia del giornalismo 2.0.