Il 27 gennaio del 1945, le truppe dell’Armata Rossa facevano irruzione nel campo di concentramento di Auschwitz, nella Polonia meridionale, liberando i prigionieri che vi erano rinchiusi. Una legge italiana del 2000 ha istituzionalizzato il ricordo di quella data, ed è per questo che oggi ricorre il Giorno della memoria. A 15 anni dall’entrata in vigore della legge, è possibile fare qualche considerazione. La legge prevede, all’articolo 2, che si organizzino «cerimonie, iniziative, incontri e momenti comuni di narrazione dei fatti e di riflessione, in modo particolare nelle scuole di ogni ordine e grado, su quanto è accaduto al popolo ebraico e ai deportati militari e politici italiani nei campi nazisti in modo da conservare nel futuro dell’Italia la memoria di un tragico ed oscuro periodo della storia nel nostro Paese e in Europa, e affinché simili eventi non possano mai più accadere».
L’oggetto del ricordo è specificato nell’articolo 1, che menziona «la Shoah (sterminio del popolo ebraico), le leggi razziali, la persecuzione italiana dei cittadini ebrei, gli italiani che hanno subìto la deportazione, la prigionia, la morte, nonché coloro che, anche in campi e schieramenti diversi, si sono opposti al progetto di sterminio, ed a rischio della propria vita hanno salvato altre vite e protetto i perseguitati».
Il testo della legge ricorda il popolo ebraico tra le vittime dello sterminio, ma non riserva lo stesso spazio ad altre minoranze che pure hanno subito una decimazione altrettanto sistematica, come i rom, gli omosessuali, persone che professavano alcune religioni (pentecostali, testimoni di Geova), ma anche slavi e polacchi non ebrei, oltre a dissidenti politici e prigionieri di guerra. Le cifre del genocidio sono oggetto di dibattito, si parla di oltre 12 milioni di persone (fa orrore anche solo pensarlo), di cui circa la metà ebrei, mentre l’altra metà composta dalle altre “categorie” che abbiamo elencato. Ovviamente non ci sono vittime di prima o seconda classe, ma questo tipo di rapporto con la storia (tutto giocato sull’emotività) implica necessariamente una semplificazione dei concetti, in modo che siano fruibili e facilmente riducibili a evento e celebrazione.
Sul blog Doppiozero è stata pubblicata un’interessante discussione, a cura di Enrico Manera, con tre storici che si sono occupati di Shoah. Uno dei nodi della questione è il fatto che si guardi a questi fatti attraverso il filtro dei testimoni (sempre meno), piuttosto che con quello degli storici. Ovviamente il contributo degli uni non esclude quello degli altri. Sono due punti di vista che non possono che arricchire il discorso: da una parte chi ascolta gli interventi di reduci dei campi di sterminio può in qualche modo essere partecipe di un’esperienza diretta; dall’altra però non si può ridurre la memoria ai soli aspetti emotivi e aneddotici, se si vuole capire a fondo com’è stato possibile che avvenisse lo sterminio. «Non è vero che il passato si ripete se non lo si ricorda. È vero purtroppo che il passato si ripete se non lo si capisce», scrive Luca Rastelli nel libro Il presente come storia. A citarlo nella conversazione è Carlo Greppi, che appunto si chiede: «Perché sono accaduti? È qui che davvero ci “serve” (a proposito di uso pubblico) il lavoro degli storici».
«Mi rendo conto quanto minore sia l’appeal della narrazione storica rispetto alla testimonianza di un ex deportato – incalza Bruno Maida – e in generale a una vittima della persecuzione (ma oggi siamo da tempo ormai anche all’accontentarsi di un parente di un testimone) all’interno di un’iniziativa pubblica. Nondimeno è questa la direzione, sotto il profilo sia banalmente anagrafico sia se si vogliono radicare davvero quelle vicende nella storia nazionale». Con un linguaggio più ostico, anche Carlo Vercelli esprime la propria perplessità nei confronti di una liturgia che, nonostante l’intento del tutto positivo, si presta a strumentalizzazioni e a pericolose derive identitarie: «L’ipertrofia della memoria “sentimentale” ed emotiva che stiamo vivendo non è funzionale alla rigenerazione dei legami collettivi, quindi alla coesione sociale, ma al combinato disposto tra identificazione proiettiva del proprio sé nello statuto della vittima e narcisismo di massa».
La memoria non è insomma un antidoto naturale al ripetersi dei peggiori eventi della storia. La conoscenza di quest’ultima, invece, è il migliore e più efficace strumento per scardinare alla base eventuali tentativi di minare la pace sociale. Quella che auspichiamo è dunque una cultura della memoria fatta soprattutto di progetti didattici e molto meno di celebrazioni. C’è bisogno di andare in profondità, mentre le vetrine servono solo a ripulire l’immagine delle istituzioni e della politica. Chiudiamo con un altro passo dal libro di Rastelli: «Tutti i nazionalismi sterminatori dell’ultimo secolo hanno avuto la memoria come propria bandiera. Vogliamo parlare del passato barbarico e glorioso della Germania? O di quello sconfitto e nobile dei serbi? Del passato universale del califfato musulmano? O di quello imperiale e panslavista russo? Nel nome di queste “memorie”, nell’ultimo secolo si è sparso sangue a fiumi […] La memoria è preziosissima, fondamentale, a condizione che sia sussunta nella fatica della storia, la fatica cioè di mettere molte interpretazioni, molte “memorie”, su un tavolo – come ha fatto, ad esempio, Nelson Mandela – e di negoziare tra interpretazioni diverse, accettando anche di arrivare a un accordo artificiale, perché l’obiettivo, per certi versi impossibile, è di capire il passato».
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