Vent’anni fa la mafia spuntava le armi alla giustizia. O almeno ci provava. Il 23 maggio del 1992, sull’autostrada Palermo-Mazara del vallo, nei pressi dello svincolo di Capaci, esplose una carica di esplosivo che mise fine alla vita del giudice Giovanni Falcone, di sua moglie Francesca Morvillo e dei tre agenti della scorta, Vito Schifani, Rocco Dicillo e Antonio Montinaro. A due decenni dalla strage, che sarà seguita 57 giorni dopo da quella di via d’Amelio, a Palermo, in cui perse la vita il collega Paolo Borsellino, forse possiamo dire che quelle armi invece hanno continuato a funzionare.
La mafia c’è ancora, ed è forte, ma non quanto lo era un tempo. Falcone, assieme al pool antimafia, ha avuto il merito di portare il problema all’ordine del giorno. Fino ad allora, infatti, Cosa nostra era un apparato criminale talmente temuto e rispettato da vivere in quell’ambito nascosto e pericoloso della mente molto simile al “rimosso” psicologico. La mafia non si vede, quindi non c’è. E allora non se ne parli. Falcone mise davanti agli occhi dell’opinione pubblica la necessità di affrontare il problema. Di stanare i legami tra organizzazioni statali e parastatali e interromperli. Affrontò l’impresa seguendo due strade.
La prima, più tecnica, dietro le quinte, fu istituendo un metodo di lavoro per la lotta alla mafia. Egli trovò nella specializzazione delle competenze e nella centralizzazione dei compiti la via per arrivare alle più insondabili profondità della criminalità organizzata; propose e chiese con forza gli strumenti di legge per poter perseguire il risultato, e sconfisse quello che Gian Carlo Caselli definisce «mito dell’invulnerabilità di Cosa nostra: 475 imputati per associazione mafiosa, 120 omicidi e innumerevoli altri reati; 360 condanne per un totale di 2.665 anni di carcere e diciannove ergastoli comminati ad alcuni tra i boss più influenti di Cosa nostra».
La seconda via fu quella della comunicazione. In tempi in cui gli italiani iniziavano a fare i conti con l’eccesso di immagini portato dalla vittoria della televisione sugli altri media, Falcone scelse di mettersi in prima linea nel veicolare il suo messaggio di legalità, rispetto delle istituzioni, senso del dovere, partecipando a trasmissioni e dibattiti in tivù. Un gesto che oggi può apparire ordinario, ma che allora fu preso per una rincorsa alla notorietà non adeguata a un uomo delle istituzioni.
Falcone e gli altri magistrati impegnati nella lotta alla mafia non godettero di incondizionato supporto da parte delle istituzioni e dei colleghi, anzi. «Vergognoso ma vero -continua Caselli, Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Torino-, Falcone e il pool furono letteralmente spazzati via, professionalmente parlando, a colpi di calunnie ossessivamente ripetute: professionisti dell’antimafia; impiego spregiudicato dei “pentiti”; uso politico della giustizia. Guarda caso la tempesta si scatenò quando il pool cominciò a occuparsi -oltre che di mafiosi di strada- dell’ex sindaco di Palermo Ciancimino, dei cugini Salvo e dei cosiddetti Cavalieri del lavoro di Catania. Insomma di quella “zona grigia” che è la spina dorsale del potere mafioso, perché assicura coperture e complicità a opera di pezzi della politica, dell’economia e delle istituzioni. Sul banco degli imputati finì Falcone: osannato da morto, umiliato da vivo».
Falcone non agiva certo per dare lezioni, ma avremmo tutti molto da imparare dal suo percorso. Soprattutto, lo spirito di servizio che lo ha sempre mosso, spingendolo a correre rischi che altri non avrebbero accettato. Ma non è l’eroismo che va imitato, bensì la compostezza e la fermezza con cui, respingendo le critiche, ha proseguito nella sua missione. Quella di difendere la democrazia, dotandola di strumenti in grado di affrontare un problema come quello mafioso, che, come ebbe a dire egli stesso, «non è affatto invincibile: è un fatto umano, e come tutti i fatti umani ha un inizio e avrà anche una fine». L’importante è rendersi conto della sua gravità e impegnare le risorse migliori nel combatterlo.