Con la nascita dei social media, ci siamo tutti abituati al fatto che ci venga proposta una serie di contenuti sulla base di ciò che un algoritmo pensa possa interessarci. Per costruire questa selezione, l’algoritmo si basa sui nostri comportamenti online, arrivando nel tempo a “conoscerci” sempre di più. Secondo un recente studio, gli adolescenti tendono a identificarsi con l’immagine di sé proposta dagli algoritmi dei social media che frequentano, e questo ha una serie di implicazioni.

Gli adolescenti si trovano infatti in una fase particolarmente malleabile della formazione e gli studiosi sostengono che questo tipo di tecnologia stia avendo effetti di tipo generazionale, non solo per il modo in cui influenza le prospettive culturali, il comportamento e la privacy, ma anche per il modo in cui può plasmare la personalità di coloro che sono cresciuti con i social media.

Ne scrive su The Conversation la ricercatrice Nora McDonald, che ha contribuito a uno studio qualitativo con interviste ad adolescenti tra i 13 e i 17 anni, scoprendo che i contenuti personalizzati proposti dagli algoritmi presentano quella che gli adolescenti interpretano come un’immagine affidabile di se stessi, e che l’esperienza di vedere quel riflesso di sé sui social piaccia loro molto.

Gli adolescenti tendono ad attribuire eventuali incongruenze dei contenuti presentati dagli algoritmi con la loro immagine di sé come anomalie, ad esempio la conseguenza di un’interazione involontaria con contenuti passati o semplicemente un errore.

Una cosa che ha sorpreso i ricercatori è che, pur essendo consapevoli che ciò che vedono nel proprio feed è il prodotto delle loro abitudini utilizzo dei social media, i giovani sono in gran parte inconsapevoli o non si preoccupano del fatto che i dati acquisiti dai social media contribuiscano a creare questa immagine di sé. In ogni caso, non vedono il loro feed come un rischio per la loro autoidentità, né tantomeno come una fonte di preoccupazione.

Le proposte degli algoritmi creano uno spazio privato-pubblico attraverso il quale gli adolescenti possono accedere a ciò che vedono come un riflesso accurato della loro immagine di sé, spiega McDonald. Scambiare dati personali e rinunciare alla privacy per assicurarsi l’accesso a quello “specchio algoritmico” sembra loro un buon affare. I giovani si ritengono in grado di escludere o ignorare i contenuti che sembrano contraddire il loro senso di sé, ma la ricerca sostiene il contrario.

Si sono infatti dimostrati molto vulnerabili alla distorsione dell’immagine di sé e ad altri problemi di salute mentale legati agli algoritmi dei social media, che sono progettati per creare e premiare l’ipersensibilità, le fissazioni e la dismorfofobia, un disturbo mentale in cui le persone si fissano sul proprio aspetto.

Alla luce di ciò che i ricercatori sanno sul cervello degli adolescenti e su questa fase dello sviluppo, e di quanto si può supporre sulla malleabilità dell’immagine di sé basata sul feedback sociale, gli adolescenti sbagliano a credere di poter superare i rischi legati all’identità di sé che gli algoritmi comportano, spiega McDonald.

Gli studiosi stanno ora esplorando più a fondo come gli adolescenti vivono i contenuti proposti dagli algoritmi e quali tipi di interventi possono aiutarli ad avere un approccio critico. Stanno quindi progettando modi per mettere in discussione l’accuratezza degli algoritmi e far capire che essi riflettono il comportamento degli utenti e non il loro essere. Un’altra parte della soluzione potrebbe consistere nel dare agli adolescenti strumenti per limitare l’accesso ai loro dati. Questo ridurrebbe l’accuratezza dei risultati, creando un utile attrito tra l’algoritmo e la percezione di sé, facendo però calare la soddisfazione e l’interesse per i risultati.

(Immagine da freepik)

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