Qualche settimana fa, il Parlamento ha approvato una norma sul finanziamento all’editoria che prevede agevolazioni fiscali per le aziende che decidono di investire in pubblicità su «su quotidiani, periodici e sulle emittenti televisive e radiofoniche locali». Una formulazione che sembrerebbe riferirsi ai giornali di carta, escludendo la stampa online. Se così fosse, e sarà un decreto attuativo del governo a dover chiarire la questione, si tratterebbe di una scelta per lo meno opinabile. «A decorrere dall’anno 2018 – si legge nel testo approvato – alle imprese e ai lavoratori autonomi che effettuano investimenti in campagne pubblicitarie sulla stampa quotidiana e periodica e sulle emittenti televisive e radiofoniche locali, analogiche o digitali, il cui valore superi almeno dell’1 per cento gli analoghi investimenti effettuati sugli stessi mezzi di informazione nell’anno precedente, è attribuito un contributo, sotto forma di credito d’imposta, pari al 75 per cento del valore incrementale degli investimenti effettuati, elevato al 90 per cento nel caso di microimprese, piccole e medie imprese e start up innovative, nel limite massimo complessivo di spesa stabilito ai sensi del comma 3».
Mentre la tendenza degli italiani (come sta accadendo un po’ ovunque nel mondo) è a informarsi sempre di più online, la scelta del Parlamento va nella direzione opposta, cercando di tenere in vita un settore, quello della carta, che si sta dimostrando sempre più obsoleto. Dando incentivi in quella direzione, si rinforza un comportamento degli investitori pubblicitari già consolidato, mentre non si supporta il settore dell’informazione online che, nonostante costituisca “il futuro” (ma soprattutto il presente), ancora non riesce ad attrarre investimenti paragonabili.
Se guardiamo i dati Nielsen sugli investimenti pubblicitari pubblicati a febbraio, e relativi al 2016, si vede come sia la tivù a raccogliere la fetta più grossa, con 3 milioni e 800mila euro (200mila in più del 2015, +5,4 per cento. Sommando la raccolta di quotidiani e periodici si ottiene circa un milione e 100mila euro (in calo di circa 100mila euro rispetto all’anno precedente). A Internet sono destinati solo 457mila euro (erano 468mila nel 2015, -2,3 per cento). Da questo breve sguardo non è difficile intuire che per gli investitori pubblicitari la televisione resta il medium di riferimento. Subito dopo viene la stampa cartacea, nonostante gli investimenti siano in costante flessione da anni (così come le vendite del resto).
La scarsa fiducia nella pubblicità su Internet è testimoniata dall’esiguità della raccolta complessiva, che costituisce meno della metà di quella cartacea, che a sua volta è circa un terzo di quella per la tivù. Il che dimostra un atteggiamento piuttosto conservatore da parte degli investitori, visto che Internet permette ormai di “cucire” l’offerta pubblicitaria attorno ai comportamenti del singolo utente. Volente o nolente (e più o meno consapevolmente), quest’ultimo fornisce ai siti che visita moltissime informazioni sui suoi interessi, sulle sue preferenze, sui suoi acquisti, ecc. Sarebbe logico che la politica supportasse il settore della stampa online, che al momento non ha ancora trovato un suo modello economico davvero efficace. Gli abbonamenti funzionano poco, perché gli utenti sono abituati a trovare molti contenuti gratuiti e sono quindi poco disposti a pagare per averli. Il comparto si regge quindi principalmente sulla pubblicità, ma si viaggia su fatturati non paragonabili a quelli della televisione e della stampa.
Per tutti questi motivi, risulta poco comprensibile la scelta del Parlamento. «Invece che prendere atto dello spostamento online del nostro modo di informarci (e delle conseguenti opportunità economiche) – scrive Luca Sofri sul suo blog –, cerca di frenarlo e favorire investimenti promozionali che il mercato sta giudicando perdenti, a fronte di nessun miglioramento del servizio per i lettori».
Sofri si interroga anche sul fatto che la ratio legis sia quella di garantire l’erogazione di un servizio pubblico, quello dell’informazione, supportando le iniziative private che se ne occupano. Anche in questo caso, però, la scelta non è efficace, perché non prevede alcuna distinzione in merito alla qualità del servizio: «La crisi dei ricavi pubblicitari riguarda altri settori e formati della “stampa” (che tra l’altro non è nel testo definita in nessun modo – “prescinde” – quindi immagino stiamo ugualmente incentivando anche la pubblicità su “Miracoli”, “Topolino” o “Cucina moderna”, con tutto il rispetto per “Miracoli”, “Topolino” e “Cucina moderna”), e soprattutto internet (mentre la tv, per un desueto ma solidissimo regime tutto italiano, prospera nelle quote di ricavi pubblicitari). È come dire che il settore dell’allevamento è in crisi e ha bisogno di aiuti, e però darli solo agli allevatori di pollame (e non stabilire criteri di qualità della produzione per ottenerli, ma ancora, “prescindiamo”)».
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