La solitudine è una condizione che tutti viviamo. In una certa misura questo non rappresenta un problema, anzi, è qualcosa di cui probabilmente abbiamo bisogno di tanto in tanto. Diventa un problema quando non è vissuta in maniera transitoria ma come cronico sentimento di distacco dalla socialità, fino a diventare un tratto della personalità, un’emozione persistente che modella il comportamento.
La ricerca sta dimostrando che questo tipo di solitudine radicata è dannosa per la nostra salute e può persino modificare il nostro cervello, aumentando il rischio di malattie neurodegenerative.
Gli esseri umani si sono evoluti come creature sociali probabilmente perché, per i nostri antenati, essere soli poteva costituire un pericolo e ridurre le probabilità di sopravvivenza, ha spiegato in un articolo il New York Times. Gli esperti ritengono che la solitudine possa essere emersa come un segnale specifico di stress che ci spinge a cercare compagnia. Con la solitudine cronica, questa risposta allo stress si blocca e diventa svantaggiosa, analogamente al modo in cui l’ansia può trasformare un’utile risposta alla paura in un disturbo mentale.
Piccoli e transitori episodi di solitudine motivano le persone a cercare legami sociali. Ma negli episodi cronici di solitudine, le persone diventano particolarmente sensibili alle minacce sociali o ai segnali di esclusione, che possono rendere spaventosa o sgradevole l’interazione con gli altri. Nel cervello, spiega l’articolo, la solitudine cronica è associata a cambiamenti in aree importanti per la cognizione sociale, la consapevolezza di sé e l’elaborazione delle emozioni.
Gli scienziati pensano che quando la solitudine scatena la risposta allo stress, si attiva anche il sistema immunitario, aumentando i livelli di alcune sostanze chimiche infiammatorie. Quando vengono sperimentati per lunghi periodi di tempo, lo stress e l’infiammazione possono arrivare a danneggiare i neuroni e le connessioni tra loro.
È noto agli scienziati il legame tra la solitudine e il morbo di Alzheimer e altri tipi di demenza. Uno studio pubblicato alla fine dello scorso anno ha suggerito che la solitudine è associata anche al morbo di Parkinson.
Gli scienziati ritengono che lo stress e l’infiammazione causati dalla solitudine contribuiscano all’insorgenza o all’accelerazione delle malattie neurodegenerative negli anziani. Anche il peso della solitudine sul sistema cardiovascolare, con l’aumento della pressione sanguigna e della frequenza cardiaca, può avere un effetto negativo sul cervello.
La maggior parte delle ricerche sulla solitudine e la neurodegenerazione sono state condotte su adulti di mezza età e anziani, quindi gli esperti non sanno se la solitudine nell’infanzia o nella giovane età adulta comporti gli stessi rischi. Tuttavia, spiega il Times, la ricerca ha scoperto che se le persone di mezza età si sentono sole solo in maniera transitoria, non c’è un aumento del rischio di demenza.
Una delle raccomandazioni più comuni è anche piuttosto ovvia: cercare di farsi nuovi amici. Che si tratti di corsi d’arte, squadre sportive, gruppi di sostegno o opportunità di volontariato, l’obiettivo è stare in posti dove le persone si incontrano.
Questi tipi di situazioni sociali “artificiali” tendono a funzionare meglio se c’è un'”identità condivisa” tra le persone coinvolte, come i gruppi specifici per le vedove o per le persone affette da diabete, in modo da avere qualcosa su cui legare.
L’altro lato dell’equazione consiste nell’affrontare gli atteggiamenti e i modelli di pensiero di una persona riguardo alle interazioni sociali attraverso la terapia cognitivo-comportamentale. Questi approcci tendono a essere un po’ più efficaci, perché vanno “alla radice” del problema, esplorando ciò che rende difficile l’interazione con gli altri.
(Foto di Joshua Newton su Unsplash)
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Quando è nata Avis Legnano i film erano muti, l’Italia era una monarchia e avere una radio voleva dire essere all’avanguardia. Da allora il mondo è cambiato, ma noi ci siamo sempre.