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La situazione greca è troppo complicata per avventurarsi in una previsione di ciò che potrà succedere da qui alle prossime settimane. Ci preme però notare alcuni elementi che sono emersi in questi giorni confusi. Su tutti, quello che è stato definito da molti il ritorno dirompente della politica nel quadro dei rapporti di forza tra gli Stati europei. Dopo anni di “compiti a casa” assegnati dal terzetto ormai unanimemente definito “Troika” (Banca centrale europea, Fondo monetario internazionale, Commissione europea) e diligentemente eseguiti dai governi di vari Stati particolarmente colpiti dagli effetti della crisi (vedi l’Italia con Mario Monti, Enrico Letta e Matteo Renzi, oppure la Spagna con Mariano Rajoy), c’è un Paese (ma davvero un Paese intero) che ha detto “no” (o meglio “oxi”), la Grecia.

Anni fa, quello stesso Paese aveva invece detto “sì” agli stessi creditori, per mezzo di altri governi, accettando le condizioni da essi imposte. Un programma che, secondo il premio Nobel per l’economia Joseph Stiglitz, «ha fatto crollare del 25 per cento il pil del paese. Non mi viene in mente nessuna depressione economica così deliberatamente forzata e con conseguenze così catastrofiche: il tasso di disoccupazione giovanile greco è arrivato al 60 per cento». Sostanzialmente, a distanza di cinque anni, le proposte che arrivano al governo guidato da Alexis Tsipras sono le stesse di allora: riforma delle pensioni, aumento dell’iva, tagli alla spesa pubblica, aumento delle tasse. In una parola: austerità. Prima il no è arrivato da Tsipras e dall’ex ministro delle Finanze Yanis Varoufakis, che si sono opposti in particolare alla riforma delle pensioni, dichiarandosi però favorevoli a prendere in considerazione altre proposte, a patto di alcune modifiche. Poi è arrivato il verdetto dei greci, e ora l’Unione europea (intesa nel senso più burocratico e tecnocratico del termine) deve fare i conti anche con questo.

A sentire Stiglitz, «Molti leader europei vorrebbero liberarsi di Tsipras, perché il suo governo si oppone alle politiche che finora hanno fatto crescere la disuguaglianza e vuole mettere un freno allo strapotere dei più ricchi. Sembrano convinti che prima o poi riusciranno a far cadere questo governo, costringendolo ad accettare un accordo in contraddizione con il suo mandato». Secondo altri economisti, come Nicola Borri e Pietro Reichlin, «i problemi dell’economia greca non sono causati da uno shock reale temporaneo, o da un calo della domanda. Il paese vive al di sopra dei propri mezzi almeno dall’inizio degli anni Ottanta, e nessuna strategia finanziaria darà ai cittadini greci la ricchezza, gonfiata da aiuti massicci e credito facile, che credevano di avere».

Lateralmente alla faccenda del debito, colpiscono le improvvise dimissioni di Varoufakis, motivate dal fatto che qualcuno nell’Eurogruppo non avrebbe visto di buon occhio una sua presenza ai prossimi colloqui. Varoufakis non sembra il tipo che si defila per stare alla larga dalle pressioni, dunque il suo gesto va interpretato (come ha scritto sul proprio blog) come il sacrificio del singolo sull’altare di un obiettivo comune. La nostra classe politica avrebbe tanto da imparare.

Sempre per stare dalle nostre parti, particolarmente odiosa è la tendenza dei media italiani a considerare ciò che succede all’estero una vittoria per questo o quel partito (o personaggio politico) italiano. Se le elezioni di Barack Obama o di José Luis Zapatero sembravano vittorie del Pd (o quella di Mariano Rajoy una rivincita del centrodestra italiano), per esempio, ora la vittoria del “no” al referendum greco viene dipinto come un successo di M5S e Lega Nord, ossia i partiti più “euroscettici” in Italia. Ma ciò che succede in Grecia, negli Stati Uniti o in Spagna va spiegato in quei contesti, non è possibile fare dei parallelismi o cantare vittoria sul carro degli altri, per così dire.

Altro elemento curioso da osservare è stato il camaleontismo del presidente del Consiglio Matteo Renzi, che domenica dichiarava perentorio: «Volete la Grecia? Prendetevela! Se volete proporre ai cittadini code ai bancomat per venti euro al giorno, se questo volete proporre agli italiani, accomodatevi pure. Io preferisco fare le riforme e tenere fuori l’Italia da questi scenari drammatici». Ieri, dopo l’incontro col ministro dell’Economia Pier Carlo Padoan, la musica è cambiata ed è venuto fuori il Renzi “rottamatore”, che ha parlato di “cantiere Ue” non più rinviabile: da mesi, ha scritto, «stiamo insistendo per discutere non solo di austerity e bilanci, ma di crescita, infrastrutture, politiche comuni sulla migrazione, innovazione, ambiente. In una parola: politica, non solo parametri. Valori, non solo numeri. Se restiamo fermi, prigionieri di regolamenti e burocrazie, l’Europa è finita». Almeno sulle proprie opinioni, però, sarebbe opportuno restare fermi, magari per un po’, giusto per non dimostrare di essere solo l’ennesimo fuoriclasse nella disciplina tutta italiana del cerchiobottismo.