La domanda sull’utilità di studiare le lingue “morte” negli istituti liceali ricorre da decenni. Il teologo e docente Vito Mancuso dà una risposta interessante in un suo articolo pubblicato Repubblica, che riportiamo di seguito.

Ricordo da giovane studente del ginnasio e del liceo classico l’obiezione che ricevevo spesso dai miei amici che frequentavano altre scuole e che anch’io, non di rado, muovevo a me stesso: ma a che servono il greco e il latino? Perché tanto dispendio di energie per studiarli?

Era il tempo in cui l’inglese non aveva ancora assunto l’importanza (per non dire l’invadenza) odierna, il tempo in cui l’informatica non la conosceva nessuno perché nessuno aveva un personal computer, eppure già allora l’obiezione procedeva come un tarlo nella mente: il greco e il latino, ma non sarebbe meglio studiare altro al loro posto? Le risposte che ricevevo a scuola non mi convincevano, e devo dire che non mi convincono neppure oggi.

La più ricorrente era quella secondo cui il greco e il latino “aprono la mente”, o “aiutano a ragionare”, il che penso sia vero, ma forse lo stesso non avviene con la matematica, la geometria, la filosofia, le lingue moderne e ancora vive, la musica?

E quindi perché occuparsi così tanto del latino, e per nulla della musica? Perché non aprirsi la mente con qualcosa che poi nel prosieguo della vita e della carriera si rivelerà più utile?

Poi ho compreso che in realtà il greco e il latino dispiegano veramente il loro senso per l’oggi, solo se, conformemente alla grande intuizione della civiltà classica di cui essi sono la voce, si esce dalle categorie dell’utile e del necessario, cioè da quella sfera che con una parola sola i latini chiamavano negotium, e si entra nella sfera contrapposta denominata otium.

Il che significa: alla domanda a cosa servono il greco e il latino la risposta più onesta e più convincente è: a nulla.

Esattamente in questa educazione all’indisponibilità sta il loro ineguagliabile servizio.

Ovviamente non è del tutto vero che il greco e il latino non servono a nulla. Oltre ad aprire veramente la mente a chiunque li pratichi, a noi italiani, che parliamo una lingua che del latino è la continuazione ininterrotta, le lingue classiche fanno conoscere le radici della nostra lingua, e quindi di noi stessi, della nostra storia e della nostra civiltà.

Penso non ci sia bisogno di convincere nessuno del fatto che per conoscere veramente il presente, e quindi per agire fruttuosamente sul futuro, occorra conoscere il passato. E il passato non è fatto solo di date, ma anche di linguaggio, di strutture grammaticali e sintattiche. Non avete mai provato una particolare allegria della mente scoprendo l’etimologia di una parola usata spesso senza pensarci? Prendiamo per esempio proprio il verbo pensare. L’italiano “pensare” viene da “pesare” (da cui i sinonimi “soppesare”, “ponderare”), mentre in latino pensare si dice “cogitare”, verbo che rimanda a cum- agitare, cioè a una sorta di conflitto interno da cui nasce quella irrequietezza della mente chiamata pensiero.

La nostra mente non si arricchisce almeno un po’ quando prende consapevolezza dell’origine delle parole di cui fa uso?

Il punto vero però non è questo, il punto vero è l’otium. Com’è noto, l’otium latino non è l’ozio italiano, ma è il tempo libero, o per meglio dire il tempo liberato dal lavoro, e dedicato alla lettura, allo studio, alla riflessione. Non è inattività, ma un altro tipo di attività. Ciò che Aristotele diceva della filosofia, a mio avviso si può dire oggi dell’intera civiltà classica: «Come diciamo uomo libero colui che è fine a se stesso e non è asservito ad altri, così questa sola, tra tutte le scienze, la diciamo libera: essa sola, infatti, è fine a se stessa. Tutte le altre scienze saranno più necessarie di questa, ma nessuna sarà superiore» (Metafisica, I, 2).

Nell’epoca dell’uomo a una sola dimensione (cfr. Herbert Marcuse, 1964) nella quale giorno dopo giorno sempre più precipitiamo, la civiltà classica ci ricorda che noi siamo, o meglio possiamo essere, a più dimensioni, e che la verità di noi stessi l’attingiamo quando giungiamo a trascendere il piano della mera utilità.

A suo tempo Kant introdusse la geniale distinzione tra prezzo e dignità col dire che «ciò che concerne le inclinazioni e i bisogni generali degli uomini ha un prezzo di mercato… ma ciò che costituisce la condizione necessaria perché qualcosa possa essere un fine in sé, non ha soltanto un valore relativo o prezzo, ma un valore intrinseco, cioè dignità» (Fondazione della metafisica dei costumi, BA 77).

Sto dicendo che nella difesa della cultura classica, e del luogo che ne è il simbolo cioè il liceo classico, si gioca la grande partita dell’umanesimo, di chi vogliamo essere veramente: se solo faber, o ancora, nonostante tutto, sapiens.

(Foto di Eduardo Olszewski su Unsplash)