Nel corso degli anni, governi di ogni colore politico hanno adottato una politica piuttosto omogenea nei confronti dell’immigrazione in partenza dalle coste del Nord Africa: fare accordi con i governi locali per limitare le partenze.
Il caso più noto è quello della Libia, a cui siamo legati da un Memorandum firmato nel 2017 e da allora rinnovato periodicamente. Un accordo i cui contenuti non sono pubblici, ma che sappiamo essere molto costoso per l’Italia (si parla di oltre 100 milioni di euro finora) e del tutto indifferente al mancato rispetto dei diritti umani nel paese africano, ampiamente documentato da più fonti.
Con un altro paese, invece, l’Italia ha stabilito accordi bilaterali che consentono il rimpatrio di persone la cui domanda di asilo non venga accettata: si tratta della Tunisia. Anche in questo caso i costi per lo Stato sono notevoli, e ancora una volta non si tiene conto del fatto che la Tunisia negli ultimi anni è diventata un paese sempre più autocratico e repressivo. Nel paese, spiega un editoriale del Foglio del 19 gennaio, «si vive una crisi economica, alimentare e democratica che ricorda quella che diede origine alle primavere arabe. L’accentramento dei poteri nelle mani [del presidente Kais Saied] e gli attacchi alle liberta? fondamentali rischiano di trasformare i tunisini, fino a ieri bollati automaticamente come migranti economici, in persone perseguitate a cui dare protezione». Un parlamentare tunisino del partito Corrente Democratica, Majdi Karbai, ha spiegato ad Altreconomia che «Mancano i beni di prima necessità: zucchero, caffè, grano. La gente è affamata e se ha fame c’è il rischio di una guerra civile. È un termine che non mi piace usare ma chi scappa dal nostro Paese scappa da un clima di paura: i giornalisti vengono arrestati, gli oppositori politici ostacolati. Manca l’accesso alla sanità e all’istruzione […]. Se nel 2011 c’era stata una rivoluzione guidata dalla voglia di libertà, oggi il motivo rischia di essere la fame».
Ma dicevamo dei costi economici: «Da gennaio a ottobre [2022] sono stati rimpatriati in 1.222, contro i 997 del 2021 – spiega ancora Altreconomia –. Il sistema accresce la propria efficacia ma a costi umani ed economici altissimi. Partendo da quelli economici il calcolo sul solo mese di agosto 2022 è eclatante: sommando il costo dei voli interni agli otto charter che da Palermo volano verso l’aeroporto di Tabarka la spesa è di quasi 1,5 milioni di euro, più di 4.200 euro a persona a cui vanno aggiunte le spese per il personale di scorta (nella maggioranza dei voli tre agenti ogni persona rimpatriata) oltre che quelle necessarie per la detenzione nei Cpr. Un’enormità. Ma ben più problematici restano i costi in termini di esercizio dei diritti fondamentali».
Il punto è che comunque si tratta di una quota molto ridotta delle persone che arrivano dal paese africano: «Al 24 ottobre [2022], secondo i dati del ministero dell’Interno italiano, la seconda nazionalità dichiarata allo sbarco è proprio quella tunisina, con 16mila persone arrivate dall’inizio dell’anno su oltre 75mila. Nello stesso periodo la Guardia costiera tunisina dichiara di averne intercettati 22.500 di cui la metà provengono però da Paesi dell’Africa sub-sahariana. E l’obiettivo da parte delle istituzioni europee è proprio aumentare questa capacità da parte delle forze di polizia tunisine». Poco più di 1.200 rimpatri, a costi enormi e consapevoli di rimandare le persone in un paese dove saranno probabilmente perseguitate, a fronte di 16 mila arrivi (che salgono a 32 mila considerando tutto il 2022, secondo quanto affermato dalla Guardia costiera italiana).
Non si tratta di una strategia che penalizza solo l’Italia, ma tutta l’UE: «Costo totale del fallimento? 162 milioni di euro dall’Europa – scrive il Foglio – “per sostenere le riforme” e altri 47 milioni solo dal governo italiano dal 2014 a oggi per il controllo dei confini». E bisogna considerare che con la maggior parte dei paesi di provenienza di chi migra verso l’Italia non c’è alcun accordo bilaterale, quindi i rimpatri non sono possibili. In sostanza, quando i governi promettono di incrementare i rimpatri, parlano principalmente di rimandare persone in Tunisia, incuranti di ciò che accadrà loro, e a costi altissimi.
(Foto di Jametlene Reskp su Unsplash)
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