Nei giorni scorsi, l’Istat ha diffuso il rapporto sui “Percorsi di studio e lavoro dei diplomati e dei laureati”. La ricerca analizza i dati occupazionali relativi al diverso grado di istruzione e ai vari ambiti disciplinari scelti dagli studenti. La conclusione più ovvia è che ci siano lauree “inutili” e da evitare, mentre altre sono da preferire, ma forse non è proprio così. Alcune frasi prese dallo studio sembrano piuttosto inopinabili: «Nei gruppi Difesa e sicurezza, Medico e Ingegneria gli occupati nel 2015 sono rispettivamente il 99,4%, 96,5% e 93,9% dei laureati di II livello. […] L’inserimento nel mercato del lavoro è più difficile per i laureati, sia di I che di II livello, nei gruppi Letterario e Geo-biologico. Lavora infatti il 61,7% dei laureati di I livello e il 73,4% di quelli di II livello del gruppo Letterario, il 58,6% dei laureati di I livello e il 76,5% di quelli di II livello del gruppo Geo-biologico. Critica è anche la situazione dei laureati di I livello nel gruppo Psicologico (lavora il 54,4%) e dei laureati di II livello nel gruppo Giuridico (lavora il 67,6%)».

C’è chi ha voluto dare un’interpretazione a nostro giudizio semplicistica, come Stefano Feltri sul Fatto Quotidiano, sostenendo che ci siano corsi di laurea da evitare assolutamente, come quelli «letterari o filosofici»: «Magari chi ha fatto scienze della comunicazione o filosofia si sente comunque appagato, perché ha sviluppato la propria personalità, cultura e flessibilità mentale. Ma dal punto di vista professionale sembra decisamente scontento. La morale resta la stessa di un anno fa: se all’università chiedete di aiutarvi a entrare nel mercato del lavoro e se pensate all’istruzione come la garanzia per raggiungere un lavoro stabile e un reddito che vi garantisca indipendenza, state lontani dalle facoltà che sfornano disoccupati».

Nonostante il ragionamento sembri lineare rispetto ai dati pubblicati dall’Istat, ci sembra che questioni più ampie debbano rientrare nella scelta di come declinare i propri studi universitari. Innanzitutto le attitudini e le motivazioni di ciascuno: un laureato in Medicina che ottenga il titolo senza particolare entusiasmo, ma mosso da un fine utilitaristico, probabilmente non avrà problemi a trovare lavoro e a mantenersi, ma che livelli professionali (e umani) potrà esprimere nel mondo del lavoro? È chiaro che la laurea in medicina è necessaria per esercitare la professione, c’è di mezzo la vita delle persone. Se uno che non ha mai letto un libro in vita sua si mette a scrivere comunicati stampa, il peggio che può fare è compiere un attentato alla grammatica italiana. Una laurea in lettere, filosofia o scienze della comunicazione, per quanto bistrattata da chi è interessato principalmente ai livelli occupazionali “garantiti”, non sarà dunque richiesta, ma resta comunque molto utile a svolgere questa mansione.

Alcune controargomentazioni interessanti all’articolo di Feltri arrivano da Antonio Scalari su ValigiaBlu. Innanzitutto il problema non riguarda solo l’area umanistica, visto che (come scritto anche nell’estratto che abbiamo riportato) le difficoltà si riscontrano anche nell’ambito geo-biologico (Scienze geologiche, Scienze biologiche e Scienze naturali): «C’è peraltro una certa differenza nel misurare il grado di utilità di una laurea sulla base della esplicita richiesta di quel titolo da parte del datore del lavoro oppure del giudizio personale sulla sua rilevanza nello svolgimento quotidiano di una mansione. […] Limitarsi a constatare un dato significa ridurre il discorso pubblico sull’Università, e quindi sul futuro del paese, alle mutevoli dinamiche del mercato del lavoro. Ignorando la sua struttura e i suoi limiti, come se esso si trovasse in uno stato perennemente ottimale (e non, come è ancora, in una condizione di crisi). Come se le esigenze delle aziende coincidessero, perfettamente e in ogni istante, con quelle di un paese e di una società. Come se non esistesse un settore pubblico, che dovrebbe costituire lo sbocco di molti percorsi di studio».

Aggiungiamo che, in tutto questo, si continua a ragionare come se l’università dovesse fornire soprattutto (o unicamente) competenze tecniche specifiche per il lavoro che si andrà a fare. In realtà, però, a meno che uno non sia interessato a lavorare in ambiti dove la tecnica è un aspetto prevalente, si può anche scegliere di dedicare il tempo degli studi a qualcosa che, in senso stretto, “non serve a niente”. A che servono le lettere, la filosofia, la storia, a meno che uno non vada a insegnare? E a pensarci bene, perché insegnarle se a sua volta chi seguirà quelle lezioni avrà come unica possibilità quella di insegnare, e tramandare così un sapere che ha il solo fine di replicare se stesso all’infinito? Molte delle cose che, apparentemente, non servono a niente, tornano utili per altre strade, meno dirette, meno scontate. Magari non si troverà subito un’occupazione stabile e con stipendi alti. Magari si dovrà fare un ulteriore sforzo per trovare il proprio ruolo in ambito lavorativo. Ma non è un buon motivo per lasciar perdere, lasciando tutto nelle mani della statistica.

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