socialL’espressione hate speech, forse, a molti non dice granché. Eppure è un fenomeno che sta “avvincendo” (o preoccupando) chiunque si occupi di internet, social network, blogging e altre forme di interazione sul web. Per capire di che si tratta usiamo una definizione trovata su un articolo del Post: «Lo hate speech – espressione spesso tradotta in italiano con la formula “incitamento all’odio” – è una categoria elaborata negli anni dalla giurisprudenza americana per indicare un genere di parole e discorsi che non hanno altra funzione a parte quella di esprimere odio e intolleranza verso una persona o un gruppo, e che rischiano di provocare reazioni violente contro quel gruppo o da parte di quel gruppo». È quel fenomeno che porta alcune persone a esprimere al massimo le proprie opinioni più “estreme” quando scrivono commenti ad articoli, o interagiscono all’interno di forum online.

Il fenomeno ci interessa perché è spesso associato al cyberbullismo, altra faccenda di cui ci siamo occupati più volte. Si tratta in entrambi i casi di manifestazioni di violenza o molestia verbale, che nel caso dei bulli seguono o accompagnano una strategia di annichilimento della vittima utilizzando tutti i canali a disposizione. Il problema non nasce certo su internet, come facevamo notare nel nostro articolo linkato: «I predittori di rischio sono sempre le dinamiche familiari – scrive l’avvocato e blogger Bruno Saetta su Valigia Blu – Focalizzarsi, invece, sulla tecnologia, sul mezzo, da un lato tranquillizza i genitori, assolvendoli per i loro errori (i minori sono influenzati dai comportamenti dei loro genitori), distraendoli dai problemi reali, ma crea anche preoccupazione verso la tecnologia spesso non sufficientemente compresa. Ciò determina ovvi fenomeni di impotenza di fronte al problema (io come genitore non posso cambiare Internet), così inculcando nella gente il bisogno di rivolgersi all’autorità per la tutela dei propri figli, che poi delega alle aziende private, quando più semplicemente basterebbe educarli attraverso esempi di comportamenti positivi. Il sottoproblema (cyberbullismo) viene sopravvalutato mentre il problema reale viene declassato. Le risorse vengono convogliate verso la direzione sbagliata. Così nasce il mercato della sicurezza online».

Il discorso sullo hate speech è più ampio, perché nasce in generale dalle possibilità di interazione su internet e riguarda quindi un parco molto più vasto di utenti. Spesso si tratta di veri e propri troll, ossia utenti che pubblicano commenti e opinioni volutamente provocatori e offensivi, per scatenare il caos nella piattaforma che hanno preso di mira. I confini dello hate speech sono però spesso di difficile individuazione. Tanto che il ruolo del moderatore dei contenuti è diventato centrale nelle più grandi aziende che si occupano di raccogliere e organizzare contenuti online. Approfondendo la lettura dell’articolo del Post di cui si parlava prima, si potrà scoprire quali sono le politiche di compagnie come Facebook, Google e Twitter. Spesso ci si affida ad algoritmi per una parte delle operazioni di scrematura, ma è inevitabile allestire veri e propri team di moderazione dei contenuti, per cui sono nate delle professionalità nuove ed esclusivamente votate a questo.

Da questo punto di vista è molto interessante la lettura di un articolo in cui si riportano le impressioni di una moderatrice, Alex Chrum, 25 anni, che si occupa del sito Debate.org. «Onestamente, è la cosa emotivamente più faticosa che abbia fatto nel mio lavoro», dice Chrum. «Nonostante questo – riporta l’articolo –, da moderatrice vedeva in tempo reale come alcuni utenti costruissero le loro argomentazioni a forza di insulti, lanciando attacchi personali basati sul genere, la razza e la sessualità». La sensazione, di fronte a queste manifestazioni di odio e intolleranza, è per lei quella di chi ha vissuto per anni in una bolla, per poi scoprire che c’è chi sostiene che «Satana abbia creato l’omosessualità o che Dio abbia fatto le donne per servire gli uomini». Il problema sta proprio in quei momenti in cui la libertà d’espressione si scontra con l’offesa e l’incitamento all’odio: «Se un utente, per esempio, dice che il mondo sarebbe un posto migliore senza gli omosessuali, conta come minaccia violenta, insulto o è soltanto una posizione morale?». Da un lato, Alex Chrum sostiene che questa esperienza l’abbia migliorata come persona, insegnandole a non prendere sul personale parole molto negative. Dall’altro, questo lavoro l’ha sfinita e scoraggiata: «Quando leggi un commento su una cosa a cui sei particolarmente sensibile, poi ti resta dentro anche se non conosci la persona che lo ha scritto. E quando è impersonale e disumanizzato, e sono tanti uno dopo l’altro, cominci a perdere fiducia nell’umanità».