Anche oggi prendiamo spunto da un video uscito qualche giorno fa, stavolta nella ricchissima sezione “Documentaries” del sito del Guardian. In particolare ci ha colpito il lavoro realizzato da Kyrre Lien, intitolato “The Internet Warriors” (si può vedere sul sito del Guardian o sul canale Youtube della testata), che in poco più di 21 minuti ci introduce dieci personaggi molto particolari: degli hater del web. In questa definizione rientrano coloro che sono soliti commentare in maniera esplicita, violenta, intollerante, razzista talvolta minacciosa uno o più argomenti discussi sui social network (ma non è necessario che ci sia un argomento, talvolta se la prendono in maniera reiterata e ossessiva con una persona famosa senza che questa debba fare o dire qualcosa). In Italia sono detti, con una formula più innocua, “leoni da tastiera”. Coloro che sanno fare la voce grossa solo dietro i filtri che li separano dal confronto reale con la persona (o le persone, perché si possono offendere con pochi caratteri lanciati in rete interi gruppi etnici o religiosi, o Stati, ecc.) che stanno insultando.
A giudicare dai loro tweet (o messaggi postati in generale), sembrano persone che su una certa questione hanno deciso di vedere solo bianco o nero, senza possibilità di altre sfumature. Come spesso accade, chi rinuncia ad affrontare la complessità delle cose (per mancanza di istruzione, o strumenti, o di qualcuno che lo aiuti in questo difficile compito) si dà (o gli viene data) una risposta che spariglia le carte. All’improvviso, in mezzo a tanta confusione (che genera paura), si trova il capro espiatorio di tutti i mali, e giù insulti senza posa. La percezione di avere accesso a un pezzettino di Verità assoluta legittima ogni eccesso pur di difenderla.
La particolarità del video è proprio quella di superare la coltre di nickname, avatar e piattaforme varie, per portarci direttamente a casa delle persone che si nascondono dietro a quei messaggi carichi d’odio. Il quadro che ne esce è piuttosto vario, ma con alcuni fili conduttori comuni. A guardare il primo personaggio del documentario, Robert (Regno Unito), viene in mente uno dei personaggi del comico Maurizio Crozza, Napalm51, a sua volta ispirato al personaggio di Walter Sobchak del film Il Grande Lebowski (interpretato da John Goodman). Come Napalm51, anche in Robert si colgono profonde contraddizioni tra ciò che dice e ciò che fa. Egli individua due problemi principali in Europa: uno è l’Unione europea (non abbiamo dubbi su cosa avrà votato al referendum per la Brexit), l’altro sono gli immigrati dalla Siria. Parlando delle migliaia di migranti che si erano accampate a Calais nei mesi scorsi, egli dice (con linguaggio molto esplicito, che evitiamo di riportare): «Rimandateli a casa. Non mi importa da dove vengono, rimandateli a casa. Rimandateli in Turchia, tanto sono passati tutti da lì». Poche frasi, tanto risentimento, molta superficialità. Poco dopo entra sua moglie, che gli porge con grazia una tazza di caffè. Sorpresa: è asiatica. Allora non è proprio tutto bianco o nero: nel grande mare dei “migranti” c’è una goccia diversa dalle altre, che merita di essere trattata come persona, addirittura di essere amata e sposata. Poi c’è il risentimento per il governo, colpevole di mettere mille ostacoli burocratici affinché costei possa stare in Uk e vivere con Robert («Ci sono voluti tre anni e un sacco di soldi, e può restare qui solo per sei mesi, poi dovrà tornare nel suo Paese e dovrò rifare tutto da capo»). Quindi non è chiaro (o forse lo è fin troppo): “gli altri” vanno rimandati tutti a casa, ma la sua compagna dovrebbe invece poter risiedere nel Paese senza troppi documenti e certificati?
Comincia a venire il dubbio, già dopo il primo personaggio, che dietro alle grandi “questioni di principio” ci siano in realtà altre frustrazioni, che grazie all’orizzontalità della comunicazione online hanno trovato una via d’uscita, seppure mascherate da qualcos’altro. Lo stesso tipo di contraddizioni si riscontrano in Sina, norvegese, anch’ella impegnata ad avercela con gli immigrati (soprattutto se di fede musulmana). Il marito, verso la fine del capitolo dedicato a lei, le fa notare di essere egli stesso un immigrato. La risposta è: «No, sei mio marito. Ok, sei un immigrato, ma non sei un terrorista». Seguono risate “rassicuranti” da coppia felice. Come si può vedere anche nel resto del documentario, molte delle convinzioni ripetute ossessivamente dagli hater sono facilmente intaccabili: basta inserire un pizzico di realtà in qualcosa che è diventato un pensiero che si auto riproduce.
Per fortuna verso la fine c’è qualcuno che fa dell’autocritica. Kjell, norvegese, non molto tempo fa proponeva di mandare tutti i musulmani su un altro pianeta: il Pianeta delle Scimmie. Nel tempo, ha conosciuto alcuni immigrati di un centro di accoglienza per rifugiati vicino a casa sua e ha scoperto che non c’è motivo di averne paura o di insultarli. Oggi afferma che se incontrasse il Kjell di qualche anno fa su un forum online, probabilmente finirebbe per litigare con quel dannato hater.