Hikikomori è una parola giapponese che letteralmente si può tradurre con “stare in disparte”, spiega il sito Hikikomori Italia. Col termine si identificano le persone, soprattutto giovani, che scelgono di isolarsi dal mondo, vivendo confinati costantemente nella propria cameretta. È un fenomeno noto in Giappone almeno dagli anni ’80, ma che negli ultimi anni si sta diffondendo un po’ in tutto il mondo.
Come spiega in uno dei suoi video su YouTube lo psicologo Marco Crepaldi, che ha approfondito il problema, ciò che spinge maggiormente i giovani a interrompere qualsiasi contatto col mondo esterno è la pressione di realizzazione sociale. Tutti la conosciamo, tutti la subiamo e la riproduciamo, ma per alcuni è una violenza troppo forte, così scelgono di sottrarvisi. È la spinta all’omologazione che si prova quando si fa parte di un gruppo, quella a conformarsi alla moda, quella che impone di essere brillanti in situazioni sociali. Ma gioca un ruolo determinante anche l’aspettativa verso un alto rendimento scolastico, o il fatto che dopo gli studi ci si proietti da subito verso la costruzione di una carriera lavorativa di successo. Certo, esistono dei gradi più o meno elevati di pressione sotto i diversi punti di vista, ma almeno uno di questi fenomeni l’ha vissuto chiunque. È una pressione sotto la quale si può finire schiacciati, che può portare a un senso di inadeguatezza che crea un blocco, un rifiuto. Nei casi più gravi, come negli hikikomori, un rifiuto totale rispetto al mondo delle relazioni.
Come spiega Crepaldi, bisogna stare attenti a non confondere il fenomeno con la dipendenza da Internet, come spesso si tende a fare. Se è vero che molti hikikomori passano diverse ore al giorno davanti al computer, magari in contatto con altre persone attraverso chat e a altre “piazze” online, questo è solo un aspetto laterale della questione, non la causa. Anzi, quando Internet viene utilizzata per mantenere dei contatti, seppure “virtuali”, con altre persone, è un errore vietarne l’utilizzo ai ragazzi e alle ragazze colpiti dalla patologia. Li si sta privando dell’unico canale di comunicazione con il resto del mondo che ancora tengono aperto. Del resto, l’errore di confondere gli hikikomori con chi ha problemi di dipendenza da Internet ha anche una ragione storica: i primi, dicevamo, esistono sotto questa definizione fin dagli anni ’80 del Novecento, un’epoca in cui i computer non erano così diffusi (e soprattutto, pur nel tecnologico Giappone, non lo era Internet). Inoltre, chi soffre di dipendenza da Internet non sempre si isola dal mondo, interrompendo ogni relazione sociale.
Per quanto riguarda le dimensioni del fenomeno, i numeri variano molto a seconda delle rilevazioni, basate principalmente su stime. Il dato più recente è comparso ieri sulla Stampa, che parla di 100mila ragazzi in Italia di età compresa tra i 14 e i 25 anni, senza però citare la fonte. Per quanto riguarda il Giappone, nello stesso articolo si parla di un milione di casi. Uno studio del governo giapponese parla invece di cifre più basse: 696mila casi nel 2010, scesi a 541mila nel 2015. Ciò che però si fa notare è che questi studi sono riferiti esclusivamente alla popolazione giovane, mentre negli ultimi anni stanno aumentando gli hikikomori di mezza età. Sembra anche che sia in aumento la durata del periodo di isolamento. L’associazione tra questa tendenza e quella dell’aumento di età fa sì che diventi un problema anche finanziario per le famiglie prendersi cura degli hikikomori, che oltre ai bisogni fondamentali devono essere seguiti a livello medico e psicologico.
Per affrontare il problema, nel nostro Paese le famiglie possono rivolgersi all’associazione Hikikomori Italia, che ha una pagina Facebook e un sito Internet sui quali si possono trovare risorse e informazioni per mettersi in contatto con gruppi di genitori della propria zona. Una delle convinzioni di chi porta avanti questo impegno è che, se non si aiutano innanzitutto i genitori, i ragazzi da soli non avranno le forze e gli strumenti per uscire dalla condizione di isolamento.