Il 10 maggio il Consiglio dei ministri ha attribuito al ministro Maria Elena Boschi alcune deleghe, tra cui quella alle pari opportunità. Un aspetto di grande importanza visto che in Italia le differenze di genere in ambito lavorativo sono molto evidenti. Ci auguriamo che il ministro trovi il tempo, parallelamente all’impegno per la fase finale dell’iter della legge costituzionale che porterà (qualora vincesse il sì al referendum di ottobre) a un nuovo assetto istituzionale, di occuparsi seriamente della questione (peraltro, oltre alle pari opportunità, le è stata affidata anche la delega per le adozioni internazionali: ma siamo sicuri che non ci fosse nessun altro, magari con un ruolo più defilato nella compagine di governo, a cui affidare questi delicati incarichi?).
La materia, si diceva, è particolarmente scottante visto che nel nostro Paese sussistono grosse differenze nell’approccio al lavoro tra uomini e donne, che si riflettono anche nell’impiego e nella retribuzione. Non si tratta tanto di differenze di stipendio nel caso di un uomo e una donna che occupino uno stesso ruolo nella stessa azienda (seppure da questo punto di vista sussista uno sbilanciamento a favore degli uomini dell’1,6 per cento). La differenza (come spiegavamo in un articolo qualche mese fa) si manifesta in partenza, quando una ragazza deve scegliere cosa fare della propria vita, a partire dal percorso di studi. Le donne guadagnano meno degli uomini perché si impegnano in settori in cui le paghe sono generalmente più basse. «Le donne – scrive il Post – costituiscono infatti il 40 per cento della forza lavoro con mansioni di segreteria, ma solo il 17 per cento della forza lavoro con incarichi dirigenziali». I dati arrivano da una ricerca della società di consulenze Korn Ferry Hay Group, che ha messo a confronto la situazione di 33 Paesi, tra cui l’Italia.
In questa dinamica c’è un condizionamento sui ruoli di genere su cui è necessario che la politica si metta in azione. Un articolo scritto a più mani per Lavoce.info suggerisce alcune azioni da mettere in campo per superare questo atteggiamento “rinunciatario” da parte delle donne: «1) Vanno forniti alle donne incentivi nei settori della formazione tecnico-scientifica, obiettivo strategico dell’Unione europea, già seguito da molte università europee e americane. Anche in Italia cominciano a esserci interventi sia a livello regionale che a livello universitario (ad esempio, nelle facoltà ingegneristiche e scientifiche in Toscana o al Politecnico di Torino). 2) Va promossa la sperimentazione e la valutazione di programmi innovativi orientati a ridurre le differenze di genere e gli stereotipi a partire dalle scuole dell’infanzia. Cominciare dai primi anni è più efficace e meno costoso». Secondo la ricerca dell’istituto statunitense, non si tratta solo di una questione di rispetto dei diritti dei singoli, ma anche di opportunità economica e sociale per le comunità che faranno proprie queste battaglie: «Con una piena uguaglianza nei luoghi di lavoro le aziende avrebbero il 15 per cento in più di probabilità di avere ritorni finanziari, aumenterebbero la loro redditività e stabilità, promuoverebbero una cultura del lavoro più innovativa (diversi studi dimostrano che le idee più innovative provengono da squadre composte al 50 per cento da donne), risolverebbero la carenza di lavoratori e lavoratrici con istruzione universitaria e per posizioni di leadership soprattutto in certi settori (scienza, tecnologia, ingegneria e matematica) e migliorerebbero i rapporti con i clienti (le aziende che somigliano poco al target della propria clientela hanno meno probabilità di comprenderne le esigenze)».
Superare cattive prassi e abitudini porta benefici diffusi. Il fatto che complessivamente le donne lavorino meno e guadagnino meno è paradossale se si pensa che rappresentano la maggioranza tra studenti e laureati, dunque dovrebbero avere opportunità non pari, bensì anche maggiori. Purtroppo però i loro studi si concentrano sui settori «della scuola, della sanità, nel welfare e negli ambiti umanistico e artistico, mentre i ragazzi sono più numerosi nell’ingegneria, nell’industria manifatturiera e nelle costruzioni». A un anno dalla laurea, il 59 per cento degli uomini lavorano, contro il 53 per cento delle donne. Il divario salariale a cinque anni dalla laurea raggiunge livelli altissimi, con un differenziale di genere del 30 per cento. Ovviamente in queste dinamiche gioca un ruolo non secondario l’aspetto della maternità, che rappresenta ancora un ostacolo allo sviluppo professionale, molto più della paternità. Anche da questo punto di vista le autrici dell’articolo su Lavoce.info lanciano alcune proposte, sia sull’estensione del congedo di paternità, sia in direzione di investimenti maggiori nei servizi alla prima infanzia. La frequenza ai nidi è infatti inferiore alla soglia raccomandata nel nostro Paese, e il motivo spesso è legato a problemi di reddito.
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