Tra le cose più notevoli degli Europei di calcio maschile da poco conclusi, c’è sicuramente il progressivo ritorno del pubblico negli stadi. Chi ha seguito il torneo avrà di certo notato il senso di vuoto delle primissime partite disputate all’Olimpico di Roma, in cui si sentivano nettamente le urla di giocatori, allenatori e delle poche persone sugli spalti, mentre a ogni pallone calciato seguiva un riverbero che si sente solo nei campetti di quartiere.

La finale di Wembley

La finale allo stadio di Wembley, invece, con gli spalti occupati all’80 per cento, ha offerto uno spettacolo molto simile a quello a cui eravamo abituati prima della pandemia. Certo quest’ultima si è fatta sentire e, al di là del fatto che l’Inghilterra giocava “in casa” e quindi è normale che ci fossero più tifosi locali, per questioni di sicurezza non sono stati venduti biglietti a persone provenienti dall’estero. Gli unici italiani ammessi sugli spalti erano persone che vivono nel Regno Unito, il che ne ha ulteriormente ridotto il numero. Questo ha comportato un enorme vantaggio in termini di sostegno alla squadra di casa, mentre l’Italia si è trovata a giocare con quasi tutto lo stadio contro, con tutto ciò che può comportare in termini emotivi e di sicurezza.

Nonostante ciò, sappiamo come è andata a finire. Il tifo è solo uno dei fattori che entrano in gioco in un contesto come questo, e forse quando la pressione è fin troppa finisce per diventare controproduente. Ma non divaghiamo.

Un esperimento naturale

Nell’ultimo anno, il principale campionato di calcio italiano (Serie A) ha generato quello che Lavoce.info definisce “un esperimento naturale” per testare le differenze di performance dei giocatori con stadi pieni e vuoti. Nel 2020, infatti, la stagione è stata interrotta dopo la giornata dell’8 marzo a causa del dilagare della pandemia di COVID-19. Da quando sono riprese le partite, il 26 giugno 2020, si è giocato “a porte chiuse”, cioè senza pubblico. Da tempo i ricercatori si chiedono se i cori sugli spalti, in particolare quelli apertamente razzisti contro giocatori di colore, modifichino in maniera sostanziale le loro prestazioni. Ecco perché la situazione che si è creata da allora è diventata un’ottima occasione per testare alcuni dei modelli elaborati in questi anni.

Lo studio alla base dell’articolo su Lavoce.info è uscito a dicembre 2020 e viene presentato dagli stessi ricercatori dell’Università di Trento che l’hanno realizzato. «L’analisi – spiegano – conclude che i giocatori [della Serie A] provenienti dall’Africa, quelli più comunemente presi di mira da abusi razzisti durante le partite, mostrano un significativo miglioramento delle prestazioni quando i tifosi non sono più allo stadio. L’analisi tiene conto di un’ampia gamma di fattori, comprese le caratteristiche del giocatore e le condizioni in cui si svolge la partita, come il meteo».

«Il secondo risultato del nostro lavoro – spiegano – è che le prestazioni migliorano in modo più sostanziale tra i giocatori africani le cui squadre sono state oggetto di abusi razzisti prima del lockdown. Il risultato si ottiene sommando all’analisi i dati sugli episodi di condotta razzista che sono stati ufficialmente registrati dalle autorità italiane nella prima parte della stagione. Ciò corrobora l’ipotesi che il razzismo giochi un ruolo importante. Una serie di analisi di robustezza esclude cause concorrenti, compresi i cosiddetti choke effects causati da grandi folle indipendentemente dal razzismo, mancanza di esperienza e differenze nelle condizioni atletiche dei calciatori che potrebbero aver generato un vantaggio per alcuni dopo la prolungata interruzione del campionato».

Una questione di produttività

Al di là delle tante questioni etiche che questo tipo di fenomeno suscita, gli autori della ricerca (che fanno parte del dipartimento di Economia e management) ne fanno una questione di produttività: «I risultati si inseriscono in un quadro più ampio che si estende oltre il mondo dello sport e dimostra gli effetti nefasti del razzismo sulla produttività. L’analisi indica che quando un lavoro si svolge in un ambiente in cui si manifestano apertamente comportamenti discriminatori, gli individui che appartengono a gruppi storicamente discriminati ottengono risultati peggiori dei loro colleghi.

Poiché la ricerca mostra che i calciatori discriminati giocano meglio senza i tifosi presenti, mentre nessun altro gruppo fa peggio, l’evidenza suggerisce che gli abusi razzisti portano a una diminuzione complessiva della produttività e dell’efficienza».

Da non confondere quindi, per tornare a quanto si diceva in apertura, la spinta emotiva e paradossale che può dare il fatto di avere tutto e tutti “contro” (il tifo, il luogo, il pronostico, il gol subito nei primi minuti, l’atmosfera da “notte magica” e da “vincenti designati” per gli avversari), che forse ha contribuito a dare alla nazionale italiana la tranquillità di chi non ha niente da perdere, con i cori razzisti ripetuti e insistiti nel corso di intere stagioni. Da questi ultimi non c’è nessun paradosso né lezione da trarre, se non che quella degli insulti a sfondo razziale contro i giocatori di colore è una pratica barbara che andrebbe condannata con più decisione.

(Foto di Dage – Looking for Europe su flickr)

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