Emergono ricostruzioni agghiaccianti da un’inchiesta pubblicata dal quotidiano Domani sulle violenze in carcere. I fatti raccontati riguardano l’istituto penitenziario di Santa Maria Capua Vetere (Caserta), dove secondo i racconti di uno dei detenuti (ma ci sarebbero dei filmati a supporto della testimonianza, che sono al vaglio della magistratura) 300 guardie, col volto coperto, avrebbero fatto irruzione nelle celle e picchiato duramente i detenuti. L’episodio risalirebbe al 6 aprile scorso, e sarebbe una rappresaglia per le proteste scoppiate nelle settimane precedenti all’interno del carcere, per le tensioni causate dal lockdown e dalla violazione dei diritti dei detenuti avvenuta in quel periodo. Come ricorderete, ci furono diverse rivolte nelle carceri italiane in quel periodo, con molti morti, e sembra che dopo quella fase sia stata messa in atto una sorta di “azione punitiva” da parte di alcuni reparti della polizia penitenziaria nei confronti dei detenuti. Ma non si tratta di episodi isolati, né del tutto nuovi. Come racconta su Domani la coordinatrice nazionale dell’associazione Antigone, Susanna Marietti, segnalazioni simili arrivano da anni. Antigone ha depositato numerosi esposti nelle diverse procure competenti, che talvolta hanno portato a indagini e condanne, mentre altre volte non hanno avuto esito. «Purtroppo Santa Maria Capua Vetere non è un caso isolato – scrive Marietti –. Da decenni raccontiamo che il carcere a volte è violento. Per questi episodi, solo alcuni di quelli che ci hanno raggiunti, Antigone ha depositato esposti alle competenti Procure nei quali si ipotizza il reato di tortura. Ci auguriamo che la magistratura chiarisca con rapidità se quelle denunce abbiano o meno un fondamento».
Non solo mele marce
Scrive ancora la coordinatrice di Antigone: «Questi racconti – gli ultimi di una serie di cui purtroppo Antigone è stata chiamata a occuparsi – mostrano come la teoria delle mele marce non possa più costituire il riparo di chi non vuole guardare alle distorsioni del sistema. A fronte dei pochi che usano la violenza quale strumento di dominio e umiliazione verso chi è in custodia, la grande maggioranza di persone oneste che compone le nostre forze dell’ordine non potrà mai vincere se non si crea una frattura culturale, politica e sociale tra chi si sente immune e impunito nell’abuso della forza e chi invece si muove nel solco della legalità costituzionale, che afferma che la pena non deve mai consistere in trattamenti contrari al senso di umanità». Ha suscitato polemiche anche l’atteggiamento della politica di fronte ai fatti sollevati dall’inchiesta. C’è chi non ha perso tempo per schierarsi dalla parte degli agenti, dandone per scontata l’innocenza. Chi invece non ha preso particolari posizioni, anche se sarebbe chiamato a farlo: «Va alzato un muro di disapprovazione verso chi si avvale di metodi di polizia e di custodia disumani, degradanti e crudeli. Vorremmo che dal Ministero della Giustizia arrivassero – sempre nel rispetto del principio sacrosanto di presunzione di non colpevolezza – parole e atti inequivoci. Vorremmo che il Governo si costituisca parte civile in tutti i procedimenti penali per tortura, quando a commetterla potrebbe essere un servitore infedele dello Stato. […] Non abbiamo bisogno di slogan e fotografie in divisa, quanto piuttosto di gratificare quei poliziotti, medici, educatori, direttori che portano avanti il difficile compito di una pena costituzionale». Federica Graziani, che ha appena curato assieme a Luigi Manconi un libro sul giustizialismo in Italia, intervistata dal Riformista ha ricordato un dato purtroppo noto: «Nelle nostre galere la negazione del fine rieducativo della pena è l’istituto più rispettato e quando qualche recluso riesce a essere nuovamente incluso nella società dei liberi lo si deve quasi sempre più a una eccezionale combinazione di risorse personali e fortuna che alla tutela del suo diritto costituzionale da parte dello stato».
(Foto di Matthew Ansley su Unsplash)