Dopo Mario Monti ed Enrico Letta, anche l’attuale presidente del Consiglio, Matteo Renzi, ha annunciato l’introduzione di un tetto agli stipendi dei manager pubblici. Speriamo che le intenzioni siano autentiche e i risultati tangibili, perché i suoi predecessori non sono riusciti a concludere granché, nonostante i tentativi. In particolare, Mario Monti aveva introdotto una norma per cui le massime cariche di istituzioni o aziende di Stato non avrebbero dovuto guadagnare più del presidente della Corte di cassazione, circa 300mila euro all’anno. Secondo quanto scriveva domenica Sergio Rizzo sul Corriere della sera, il provvedimento non ha centrato l’obiettivo. Già in corso di approvazione si era “sgonfiato” quando, stabilito che esso si sarebbe applicato ai burocrati statali, si demandava al Ministero del tesoro di occuparsi della questione dei manager delle aziende pubbliche, più complicata da trattare.

All’ultimo, un emendamento di una deputata leghista venne approvato e il taglio scattò quindi per tutti. A quel punto successe qualcosa che Rizzo descrive così: «Il Tesoro riesce a metterci una pezza per le società quotate come Eni, Enel, Finmeccanica e Terna, che vengono così salvate. Passa poi qualche mese e spunta magicamente un altro emendamento, con il quale si escludono dal tetto anche le società non quotate ma che hanno emesso “strumenti finanziari” sui mercati non regolamentati. Una fattispecie del tutto inedita, che però consente di tirare fuori dal mazzo le Ferrovie dello Stato con gli 873.666 euro di Mauro Moretti, la Cassa depositi e prestiti con il milione 35 mila euro di Giovanni Gorno Tempini, e le Poste con il milione e mezzo di Massimo Sarmi. Ma non è ancora finita. Perché un ennesimo emendamento precisa, a scanso di equivoci, che il tetto non vale nemmeno per le loro controllate». In definitiva, il provvedimento è andato a toccare gli stipendi di ben due dirigenti pubblici, su 7.411 società pubbliche esistenti. Una legge concepita con l’intento di fare piazza pulita dei super-stipendi è stata svuotata del suo contenuto al punto da poter essere definita, a tutti gli effetti, ad personam.

Detto questo, dovrebbe essere chiaro come mai ci troviamo a essere così sospettosi verso l’annuncio di Renzi, che vorrebbe portare il tetto a un limite ancora più basso, allineato stavolta a quello del Presidente della Repubblica, che attualmente guadagna 239.181 euro lordi. Gli auguriamo di farcela, anche se tutto attorno a lui gli gioca contro, a partire ovviamente dai dirigenti. Il più sfacciato è stato proprio Mauro Moretti, che ha detto che se davvero gli sarà ridotto lo stipendio andrà all’estero. Una minaccia non ci ha fatti tremare sulla sedia, e soprattutto ci fa dire che Moretti dovrebbe fare meglio i propri conti, visto che uno stipendio come il suo non lo otterrà facilmente fuori dall’Italia. I dati Ocse (in questo documento, a pagina 109, grafico 5.5) confermano infatti che il nostro Paese è quello che paga di più in assoluto i propri manager pubblici, con una media tra i 600 e i 700mila euro per i dirigenti “D1”, ossia quelli che vengono subito dopo il ruolo di ministro, e di quasi 400mila i “D2”, che seguono. Sui “D1” siamo i primi in assoluto, con un grande stacco sugli inseguitori, mentre per i “D2” ci fanno compagnia Australia e Nuova Zelanda, più dietro la Germania. Insomma, per quanto duro sia il suo lavoro, Moretti (e i suoi tanti colleghi) farebbe bene a tenerselo stretto.

Le vie d’uscita ci sono. Una la indica proprio una delle due vittime di Monti, Domenico Arcuri, che propone l’eliminazione della quota fissa degli stipendi e una retribuzione legata quindi esclusivamente ai risultati. Ma è banale: i manager si attribuirebbero sempre il massimo e chiusa la questione. Un’altra proposta la rilanciamo da un nostro articolo pubblicato ormai due anni fa, ma che troviamo ancora attuale: «Perché questi ultimi [i manager] non danno volontariamente le dimissioni, facendosi riassumere alle stesse condizioni del contratto precedente, fatto salvo il tetto di stipendio di cui sopra?».