Caritas italiana ha fatto una rilevazione tra le proprie strutture di aiuto sparse per il territorio italiano. Ne emerge che nelle settimane del lockdown sono molto aumentate le richieste di aiuto, sia da parte di chi già si rivolgeva ai centri, sia da persone che hanno cominciato ad andarci proprio durante il periodo di chiusura. «Chi era povero in passato si ritrova oggi inevitabilmente più deprivato, mentre chi si collocava appena al di sopra della soglia di povertà (le famiglie che l’Istat definisce “quasi povere” secondo i parametri di calcolo della povertà relativa) inizia a non disporre del necessario per vivere», ha spiegato su Welforum Federica De Lauso, curatrice del rapporto Caritas su povertà ed esclusione sociale. La rilevazione si è svolta dal 9 al 24 aprile (ne seguirà un’altra a giugno) e ha coinvolto 101 delle 218 sedi Caritas presenti in Italia. In termini numerici, i “nuovi poveri” registrati sono stati 38.500. Si tratta cioè di persone che hanno cominciato ad accedere per la prima volta ai servizi dell’ente pastorale durante il picco della pandemia. Il dato è certamente sottostimato, dato che copre solo la metà delle strutture. Inoltre non è detto che tutte le persone in difficoltà si siano rivolte ai centri Caritas: c’è sicuramente chi ha fatto ricorso ad altre associazioni, a familiari, altre reti informali, ecc. La cifra rivela però una tendenza di cui tenere conto, che arriva in un momento in cui, dopo gli anni difficili della crisi economica del 2008, le cose stavano migliorando: «Dai mesi di pre-emergenza ad oggi si è registrato un aumento del 105 per cento delle nuove povertà, che si sommano a quelle già note, e in alcuni casi croniche, conosciute da tempo. Questo trend appare ancor più grave se si pensa che avviene dopo anni di calo ininterrotto dei nuovi accessi registrato a partire dal 2016».
Disparità territoriali e categorie
Nonostante il virus abbia colpito soprattutto il Nord Italia, le chiusure hanno avuto un impatto più forte nel Meridione, «dove le nuove prese in carico registrano un +153 per cento. In queste regioni, quelle di Sud e Isole, lo ricordiamo si concentra quasi la metà di tutti i poveri assoluti, i livelli di disoccupazione sfiorano il 18 per cento (a fronte di un dato nazionale del 10 per cento) e l’incidenza del lavoro irregolare risulta molto più marcata». Sono quindi i territori già in difficoltà a fare registrare la tendenza più preoccupante. I nuovi poveri sono soprattutto coloro che vivevano in una condizione di precarietà lavorativa, che quindi non godevano di ammortizzatori sociali in grado di supportarli (o che ancora aspettano le risorse che spettano loro): «Tra i “nuovi volti” incontrati dalle Caritas ci sono italiani e stranieri, giovani adulti ma anche anziani soli, famiglie con minori, nuclei con disabili. Si tratta di persone che prima dell’emergenza, potevano contare magari su un impiego precario, stagionale o irregolare; o ancora piccoli commercianti, lavoratori autonomi, ma anche persone che versavano già da tempo in uno stato di disoccupazione. A loro si aggiungono i cassaintegrati o liberi professionisti in attesa dei trasferimenti monetari di protezione e assicurazione sociale stanziati a marzo, non ancora accreditati». Il problema che ci portiamo dietro come Paese dalla crisi del 2008 è la ridotta capacità di risparmio, che oggi espone molte famiglie e singoli individui all’impossibilità di fare fronte a un periodo di mancati introiti. «I dati OCSE ci collocano in fondo alla classifica dei paesi economicamente avanzati, con un tasso di risparmio netto delle famiglie del 2,5 per cento, a fronte di una media europea del 6 per cento (ben distanti dagli anni novanta quando l’incidenza dei risparmi superava il 15 per cento). […] La nuova categoria dei working poor è forse la prova più evidente di un lavoro che spesso non riesce a fornire una adeguata protezione sociale».
I diversi problemi
Sono diverse le tipologie di disagio registrate. Talvolta la scarsità di risorse riguarda l’impossibilità di acquistare i beni materiali per la sussistenza, altre volte il problema è non potersi permettere strumenti senza i quali si crea un divario sociale e culturale, per esempio nel caso della scuola: «Difficoltà di risorse, che si manifestano anche nell’impossibilità di poter accedere alla strumentazione utile per la didattica a distanza dei figli, sia in termini di connessione wi-fi, che di apparecchiature (quindi tablet o pc). Passano anche da qui le storie di fragilità e di deprivazione vissute da bambini e minori che vivono in famiglie in uno stato di indigenza; forme di disuguaglianza sociale che afferiscono l’ambito educativo, e che sommate a tante altre, andranno probabilmente a condizionare il futuro di questi ragazzi, innescando nei casi più gravi circoli viziosi di povertà. […] Il disagio di queste settimane, tuttavia, non è solo di ordine materiale. Accanto alle fragilità economiche o occupazionali, i territori evidenziano infatti anche un accentuarsi delle problematiche familiari, in termini di conflittualità di coppia, violenza, difficoltà di accudimento di bambini piccoli o di familiari colpiti dalla disabilità, conflittualità genitori-figli (questo incremento viene registrato dal 69,3 per cento dei territori)».
(Foto di Cherry Laithang su Unsplash)