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La politica di oggi, col suo mix di giovanilismo, personalismo e iper-semplificazione dei messaggi e degli argomenti, si sposa benissimo con i nuovi mezzi messi a disposizione della tecnologia per comunicare. Ma proprio quest’ultimo verbo è al centro di un grande equivoco. Il grande comunicatore, per come è stato formalizzato dalla letteratura della materia, è colui in grado di fare arrivare il proprio messaggio in maniera semplice e chiara al proprio uditorio. Egli sarà quindi in grado di decidere con la massima efficacia cosa comunicare, in che forma, con quale strumento, quando e a chi. Ma appunto, siamo proprio sicuri che i politici italiani si occupino davvero di questo? È una domanda a cui tenta di rispondere Giuseppe Mazza sul blog Doppiozero. Prima una precisazione sulle prerogative di chi comunica: «I comunicatori – scrive – si occupano della delivery di un significato. Se gli artisti non devono dare alcuna destinazione alle proprie creazioni – cosa vuol dire di preciso quel quadro? – i comunicatori invece hanno a cuore la ricezione esatta di ciò che vogliono esprimere».

Quindi, di cosa si parla quando si parla dei nostri politici più “vincenti” in termini di comunicazione (Matteo Renzi e Matteo Salvini, per citare i due casi più eclatanti)? «Di tutto si può parlare ma non di comunicatori. Questi non vogliono comunicarci niente. Serve una definizione diversa, più aderente. In effetti, il leader italiano potrebbe essere un intortatore. Non è un insulto, non è dialetto. Arriva dal participio passato di torcere, nel senso di “far girare” allo scopo di stordire, dice il Vocabolario Treccani. Intorto, dal latino “intorquere“, torcere in dentro (Dizionario Etimologico di De Mauro-Mancini), che descrive molto meglio del “comunicare” il flusso di parole da cui si è avvolti, attorcigliati, tra spirali di frasi come da edera, fino all’inviluppare, al rendere oscuro, all’intorta oratio, come recita il dizionario Latino di Castiglioni-Mariotti».

Abbiamo assistito a un grande cambiamento, iniziato con la “discesa in campo” di Silvio Berlusconi (intortatore di prim’ordine, ma talvolta anche vero comunicatore), che ha mandato in soffitta i partiti tradizionali, e completato dall’intortatore Matteo Renzi, riuscito a “scalare dall’esterno” l’ultimo partito tradizionale rimasto in circolazione, il Pd. Su questi temi, consigliamo di vedere la registrazione di uno degli incontri del Festival internazionale del giornalismo di Perugia, che vedeva impegnati Marco Damilano ed Enrico Mentana, moderati da Arianna Ciccone, in un dibattito dal titolo “La Repubblica dei selfie” (qui il video integrale). I due danno vita a interessanti riflessioni – il cui valore è forse limitato unicamente dal fatto che entrambi sono parte attiva del sistema che criticano – che rivelano quante insidie siano contenute nell’assertività di certe dichiarazioni: «È stata raggiunta una lunghezza d’onda tra parte degli elettori e la nuova generazione degli eletti che sta sui 140 caratteri, sugli hashtag – dice Mentana –. Se uno vede i tweet di Renzi sulla “Buona scuola”, dice “è fatta”. Ma perché quindi il 5 maggio tutti i sindacati della scuola scioperano? Non basta l’hashtag per riempire di contenuti le velleità riformatrici. Si è persa la dimensione delle riforme. Chi amministra ha a che fare con l’esistente, chi fa politica ha a che fare col futuro. In questo momento c’è una grande idea di presente, che sta molto meglio in 140 caratteri».

In tutto questo clima di novità, in realtà, c’è un salto indietro nel tempo di secoli nel modo di fare politica. La personalizzazione, il “liderismo”, non sono una novità dei nostri tempi. La politica si faceva già così, prima che esistessero i partiti: «Il secolo scorso si apre con Gramsci che dice “il moderno principe non è più una persona, è il partito” – dice Damilano –. Una forma organizzata, dove ci si iscrive, si discute, si vota, e poi c’è il comitato centrale. Il leader era il capo del partito. Quando Enrico Berlinguer andò in televisione a dire che “la spinta propulsiva della rivoluzione d’ottobre si è esaurita”, i suoi compagni gli dissero “ma come, l’hai detto in televisione? Dovevi convocare prima il comitato centrale”. La politica dell’ultimo decennio torna al Principe di Machiavelli: ai capitani di ventura, ai duchi, e quindi alla politica della doppiezza, dei tradimenti. Ma torna soprattutto la politica delle persone. Sembra molto moderno, in realtà è molto antico, perché fino alla Rivoluzione francese la politica è stata esattamente questo: uno scontro tra persone che si combattevano per conquistare un territorio. Naturalmente, di moderno ci sono gli strumenti di comunicazione. Quindi c’è una nuova forma di comunicazione, che però non esisterebbe se non ci fosse contemporaneamente la personalizzazione della politica».