Spesso negli ultimi anni si è parlato di rifugiati come se fossero un’emergenza nazionale. I dati hanno sempre dimostrato che non è così, e l’ultimo rapporto dell’UNHCR (Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati) lo conferma. La nuova area più colpita dal problema nel mondo è l’America Latina, visto che le persone in fuga dal Venezuela sono state aggiunte al totale, portando il conteggio dai 70,8 milioni del 2018 a 79,5 milioni nel 2019. Quasi il doppio rispetto a dieci anni fa, come si può vedere in questa pagina di infografiche. Dagli anni ’90 del secolo scorso il numero complessivo era rimasto piuttosto costante fino al 2010, dopodiché è salito progressivamente.
Due terzi vengono da cinque paesi
La situazione siriana è tuttora quella più grave, con 6,6 milioni di rifugiati nel 2019. Seguono il Venezuela (3,7 milioni), l’Afghanistan (2,7 milioni), il Sud Sudan (2,2 milioni) e Myanmar (1,1 milioni). Complessivamente, questi paesi hanno prodotto il 68 per cento di tutti i rifugiati nel mondo, oltre due terzi. Contrariamente a quanto si può pensare, non sono i paesi più ricchi e sviluppati quelli che accolgono il maggior numero di rifugiati. Lo stato che ne ha accolti di più nel 2019 è stato la Turchia (3,6 milioni), seguita da Colombia (1,8 milioni), Pakistan (1,4 milioni), Uganda (1,4 milioni) e solo al quinto posto la Germania (1,1 milioni). Questi i numeri assoluti, si potrebbe pensare che a guardare il numero di rifugiati in rapporto alla popolazione totale le cose possano ribaltarsi. Non è così. Riprendiamo di seguito la tabella pubblicata su Welforum.it, che illustra la situazione dei primi dieci paesi in questa classifica.
I primi dieci paesi per rifugiati accolti ogni 1.000 abitanti
(I dati non comprendono i rifugiati palestinesi)
PAESE | CIFRA |
Aruba | 156 |
Libano | 134 |
Curaçao | 99 |
Giordania | 69 |
Turchia | 43 |
Colombia | 35 |
Uganda | 31 |
Guyana | 28 |
Panama | 28 |
Ciad | 28 |
Come mai questi numeri, che possono sembrare sorprendenti? Lo spiega Maurizio Ambrosini nell’articolo da cui abbiamo tratto la tabella: «Al netto degli sfollati interni, che gravano sulle regioni funestate da conflitti armati, l’85 per cento dei rifugiati internazionali è accolto in paesi in via di sviluppo, perlopiù quelli confinanti con i paesi di origine dei profughi stessi (73 per cento dei casi: circa tre su quattro). Come regola, i migranti forzati non si sono preparati a partire, sono spesso accompagnati dalle famiglie, e non sono in grado di portare con sé risorse adeguate: di conseguenza non riescono a fare molta strada. Vengono da paesi poveri o impoveriti dai conflitti e cercano scampo in altri paesi poveri. In otto casi su dieci sono insediati in paesi afflitti a loro volta da malnutrizione e insicurezza alimentare». La nostra percezione del mondo è quindi spesso molto lontana dalla realtà, che presenta sfaccettature e complessità molto più ricche di quelle che normalmente ci vengono proposte.
Difficile tornare a casa
Altro tema caldo è quello delle richieste di asilo politico, che nel 2019 sono state due milioni. Al primo posto, proprio a causa della crisi in corso in America Latina, Stati Uniti (301 mila domande) e Perù (260 mila). Seguono Germania (142.500), Francia (123.900) e Spagna (118.300). Resta molto difficile il rientro a casa, che spesso è la soluzione auspicata dai rifugiati stessi stessi. «Negli anni ’90 in media 1,5 milioni di rifugiati all’anno riuscivano a rientrare nei luoghi di origine – spiega Ambrosini –. Negli ultimi dieci anni invece la media è scesa sotto quota 400.000 all’anno. Un numero crescente di rifugiati vive ormai da molti anni in situazioni di precarietà, di dipendenza da aiuti esterni, di confinamento in spazi angusti e sorvegliati, di incertezza protratta e impossibilità di progettare un futuro. Quel che è peggio, tra i 30 e i 34 milioni di rifugiati sono minorenni. Vivere da rifugiati, all’estero, con un accesso limitato all’istruzione, senza certezze, esposti al rischio costante di essere rimpatriati, spesso nella necessità di cercare un qualche tipo di lavoro per contribuire alla stentata economia familiare (o a elemosinare, o peggio), getta ombre inquietanti sul loro futuro». L’accoglienza è dunque innanzitutto un investimento per il futuro: quello dei giovani rifugiati, ma anche del paese che li ospita e che potrebbe diventare anche il loro. «Non ci si può aspettare che le persone vivano per anni e anni una condizione precaria, senza avere né la possibilità di tornare a casa né la speranza di poter cominciare una nuova vita nel luogo in cui si trovano – ha dichiarato l’Alto Commissario delle Nazioni Unite per i Rifugiati, Filippo Grandi –. È necessario adottare sia un atteggiamento profondamente nuovo e aperto nei confronti di tutti coloro che fuggono, sia un impulso molto più determinato volto a risolvere conflitti che proseguono per anni e che sono alla radice di immense sofferenze».
(Foto di James Beheshti su Unsplash)