Le principali piattaforme social stanno escludendo le notizie e i link ai siti di news dai contenuti a cui gli utenti hanno accesso. Che implicazioni ha questo sulla diffusione dell’informazione e sulla salute del sistema democratico? Ne scrive Lucy.
Prima della censura c’è stato lo shadow ban (“divieto ombra”), il meccanismo con cui le piattaforme social riducono drasticamente – e senza dichiararlo – la visibilità di alcuni utenti e dei contenuti che producono. Post e storie, di colpo, non raggiungono più il pubblico a cui sono destinate, nonostante non violino esplicitamente i regolamenti delle comunità dei vari Facebook, Instagram, TikTok. È una pratica che è stata scoperta per via empirica – visto che i colossi del settore non hanno mai dichiarato esplicitamente la sua introduzione, e ancora oggi non ne parlano con piacere –, che viene denunciata da ormai qualche anno, ma che solo negli ultimi mesi sembra essere diventata un problema globale.
Prima l’invasione dell’Ucraina e poi quella di Gaza hanno fatto salire enormemente la temperatura sui social, portando alla moltiplicazione dei contenuti di natura politica e cogliendo alla sprovvista i colossi del settore, che nello stesso periodo – seguendo l’esempio di Elon Musk su X/Twitter – stavano iniziando a decimare, per ridimensionamento aziendale, le squadre di moderatori, delegando sempre più all’algoritmo la selezione dei contenuti da eliminare perché in violazione delle linee guida delle community (foto di nudo, post di incitamento all’odio e così via).
Le immagini e i video di guerra virali sono aumentati, e così i commenti e gli scontri tra account filorussi e filoucraini, filopalestinesi e filoisraeliani. Le piattaforme, per “pulire” i feed da quanti più contenziosi possibile, si sono rifugiate in uno shadow ban sempre più capillare. Le accuse di censura sono giunte soprattutto dagli attivisti digitali in favore della Palestina e dell’Ucraina, preoccupati che dalle parti di Instagram o TikTok si stesse cercando di condizionare il dibattito social in favore di Israele o della Russia.
In realtà, più che di vera e propria censura, l’azione dei social media nei confronti dei temi più delicati dei nostri anni sembra essere di natura pilatesca. Incapaci di filtrare adeguatamente la marea di contenuti a tema bellico, hanno deciso di fare di tutta l’erba un fascio e nascondere o limitare per via algoritmica la diffusione di ogni contenuto che contenesse parole considerate sensibili, come “Palestina”, “Hamas”, “Israele” o hashtag come “BuchaMassacre”, “Azov”, “StandWithUkraine”.
Lo shadow ban, è quindi un’ammissione di impotenza da parte dei principali social. Ma è anche la conferma della volontà di tenere sempre più lontani dalle piattaforme i contenuti politici, che negli ultimi anni hanno creato numerosi grattacapi a Mark Zuckerberg e soci. Un desiderio di presunta “neutralità” maturato mano a mano che si succedevano, prima ancora delle due guerre in corso, lo scandalo Cambridge Analytica, le teorie del complotto su QAnon, la disinformazione sul COVID.
(Foto di Benjamin Sow su Unsplash)
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