Nessuno esita a chiamarli tagli lineari, il governo seguita a definirli “risparmi”. Ieri è stata posta la questione di fiducia sul decreto enti locali, che prevede un grosso riordino delle spese per la sanità. I conti li ha fatti il Sole 24 Ore, che il 30 luglio ha pubblicato l’entità dei tagli per le varie Regioni, solo apparentemente proporzionali ma in realtà lineari, in quanto calcolati in percentuale sul Fondo sanitario. «Dal top della Lombardia con 385 mln di taglio secco – scrive il giornale di Confindustria –, passando per i 222,5 mln del Lazio e appena 500mila in meno della Campania, fino ad arrivare ai 193 mln della Sicilia e ai 190 del Veneto. E giù giù, fino ai 4,9 mln della Valle d’Aosta, i 12,5 mln del Molise e i 22,8 della Basilicata».

Gli interventi, secondo quanto dichiarato dal ministro per la Salute Beatrice Lorenzin, sono volti a combattere corruzione, sprechi e inappropriatezza. Altre voci del governo fanno notare che le decisioni sono state tutte prese di concerto con le Regioni. Evidentemente non tutti erano d’accordo, visto che alcuni presidenti, tra cui alcuni espressione del Pd, hanno espresso forti perplessità. Il problema, quando lo Stato interviene con misure spalmate a livello nazionale, è che il sistema sanitario è gestito dalle Regioni, e quindi ogni realtà territoriale ha livelli e modalità di gestione molto diversi. Si rischia quindi di fare rallentare chi ha raggiunto livelli di assistenza più avanzati, e di penalizzare ulteriormente chi, per mancanza di soldi o incapacità di gestione, è già in difficoltà.

Il pacchetto, che prevede un risparmio per l’erario di 2,3 miliardi quest’anno e altrettanti nel 2016 e 2017, tra le altre cose stabilisce che i medici che prescriveranno visite ed esami ritenuti non necessari al paziente subiranno una decurtazione dello stipendio. «Il Ministero della salute – scrive la Repubblica – con un imminente decreto stilerà la lista delle situazioni e patologie dove analisi e approfondimenti sono necessari, se si è fuori della lista si pagherà di tasca propria». Principi prettamente economici entrano quindi in maniera dirompente nella gestione della salute pubblica. È chiaro che il fatto di prescrivere con facilità prestazioni specialistiche non è una buona prassi per un medico, ma anche una lista stilata per decreto ha dei rischi. Difficile stabilire con l’accetta dove debba terminare la discrezionalità del medico e dove debba cominciare quella del Ministero.

Una buona notizia riguarda i centri di acquisto, dai quali si prevede di ricavare un grande risparmio grazie alla rinegoziazione dei contratti e al monitoraggio: «La gran parte dei risparmi verrà tuttavia dalla rinegoziazione dei contratti di acquisto di beni e servizi (con la centrale unica di acquisti) e in particolare dei dispositivi medici. Inoltre sarà costituito presso il ministero della Salute un osservatorio sui prezzi dei dispositivi medici (apparecchi, impianti, sostanze) il cui costo non potrà comunque superare il tetto del 4,4 per cento». L’idea è buona, speriamo sia applicata con giudizio. Anche su questo punto c’è chi ha già fatto passi avanti nel percorso, e andrebbe forse studiato prima di procedere, come la Toscana: «La centrale unica d’acquisto noi ce l’abbiamo già per tutte le aziende sanitarie», ha detto Stefania Saccari, assessore alla Salute per la Regione.

Timori vengono anche dal mondo della disabilità, che ipotizza che alle famiglie e ai malati sia chiesto un ulteriore contributo per garantirsi le cure e le attrezzature cui hanno diritto. Secondo quanto scrive la Fish (Federazione italiana per il superamento dell’handicap), sono «Pesanti anche gli interventi nel settore dei dispositivi medici fra i quali rientrano anche gli ausili, e protesi, le ortesi e, ad esempio i prodotti per l’incontinenza o per le persone enterourostomizzate. Tutte le spese connesse, secondo la nuova norma in attesa di conferma alla Camera, dovranno essere compresse». Vincenzo Falabella, presidente della Federazione, sottolinea che «Le nostre riserve non sono marginali. Riguardano innanzitutto la libertà di scelta dei prodotti messa a rischio da vincoli rigidi sulle gare laddove invece sono evidenti elevate necessità di personalizzazione. Riguardano la partecipazione alla spesa da parte delle persone per i servizi di riabilitazione (o anche quelli di valenza sociosanitaria). Riguardano il mancato coinvolgimento di nuove e competenti professionalità, non necessariamente medici specialisti, nella prescrizione di prodotti per l’autonomia. Riguardano il vero contrasto all’inappropriatezza delle prescrizioni che si conduce prima di tutto culturalmente. Se a questo si aggiunge la rinnovata volontà di contenere la spesa in modo lineare su prodotti e servizi, il rischio concreto è che l’intero ambito della riabilitazione, e quindi della salute, sia destinato a peggiorare ulteriormente in qualità, quantità, efficacia ed efficienza».