Il 15 ottobre a Kigali, in Ruanda, è stato firmato un accordo che vincola oltre 150 Paesi nel mondo a diminuire progressivamente, a partire dal 2019, l’uso di idrofluorocarburi, gas utilizzati per impianti di condizionamento e refrigerazione, tra i maggiori responsabili dell’effetto serra. Si tratta di un accordo di grande importanza (nonostante i maggiori giornali non gli abbiano dedicato eccessivi approfondimenti) perché potrebbe, secondo i suoi promotori, contribuire a ridurre il riscaldamento globale di circa 0,5 gradi centigradi. Si tratta di una misura molto rilevante perché, secondo vari studi, uno degli obiettivi più importanti per evitare conseguenze disastrose per la vita sul pianeta è contenere l’aumento della temperatura globale entro la misura di +1,5 gradi rispetto all’era pre-industriale.
A dicembre dello scorso anno, nel corso della conferenza di Parigi denominata Cop21, ci si era resi conto che ai ritmi attuali sarebbe stato impossibile restare al di sotto dei 2 gradi centigradi. Allontanarsi da questi livelli vuol dire, secondo le previsioni, assistere a un intensificarsi di calamità naturali che metterebbero a rischio o renderebbero molto più difficile la vita dell’uomo in zone sempre più grandi del mondo. Durante la conferenza parigina furono presi accordi non vincolanti tra i partecipanti, che infatti delusero chi riponeva maggiori speranze nell’efficacia dell’incontro. Ma sembra che proprio quella fase preliminare sia alla base di quanto stabilito a Kigali, dove si è rimesso mano all’accordo di Montréal del 1987, inserendo tra le sostanze in futuro del tutto bandite gli idrofluorocarburi. Come molti ricorderanno, nell’incontro canadese dell’87 furono messi all’indice i clorofluorocarburi (Cfc), utilizzati anch’essi in impianti di refrigerazione e all’interno di bombolette spray.
I Cfc erano stati giudicati responsabili dell’allargamento del buco dell’ozono, uno strato gassoso dell’atmosfera terrestre che attenua i raggi solari, impedendo che causino un eccessivo surriscaldamento della superficie del pianeta. Da allora, in effetti, l’assottigliamento dello strato di ozono è cessato e anzi, nelle zone dove si era aperto un vero e proprio buco, come in Antartide, questo si sta lentamente richiudendo.
Gli idrofluorocarburi (Hfc) sono subentrati, a seguito di Montréal, proprio per prendere il posto dei Cfc, solo che oggi ci si è resi conto che anch’essi sono particolarmente dannosi, non per l’ozono ma per l’effetto serra. Se pensiamo a quanto si siano diffusi rispetto al 1987 gli impianti di refrigerazione e condizionamento, soprattutto in Paesi dall’economia emergente come India e Cina, si può intuire il perché di un impatto così forte degli Hfc sul riscaldamento globale.
L’accordo di Kigali avrà i suoi primi effetti a partire dal 2019, ma non per tutti i firmatari: «La prima [riduzione di idrofluorocarburi] riguarderà i paesi sviluppati, come Stati Uniti ed Europa, che entro il 2019 dovranno raggiungere una riduzione del 10 per cento nelle emissioni di questi gas – spiega il Post –. La seconda fase riguarderà invece paesi in via di sviluppo, come Cina e i paesi del Sud America, che dovranno tagliare le emissioni a partire dal 2024 (la Cina comincerà a diminuire la produzione a partire dal 2029). La terza fase riguarda invece India, Pakistan, Iran, Iraq e i paesi del Golfo, che inizieranno a ridurre l’uso dei gas a partire dal 2028».
Possono apparire impegni modesti e troppo a lungo termine rispetto all’emergenza climatica di cui da tempo siamo a conoscenza. Bisogna però ricordare che, tra le cose che devono considerare i rappresentanti dei governi del mondo, c’è la stabilità finanziaria dei Paesi coinvolti. Un immediato taglio della produzione potrebbe fare sprofondare i bilanci di grandi aziende produttrici, impossibilitate ad affrontare la transizione. Considerando che il fatturato di alcune grandi multinazionali supera di gran lunga quello di interi Paesi, il loro fallimento potrebbe mettere in ginocchio l’economia di alcuni Stati, generando dunque più danni di quelli che si cercano di evitare. Si verificherebbe uno dei paradossi evidenziati da Fabrizio Galimberti sul Sole 24 Ore del 16 ottobre (articolo da ieri disponibile anche sul sito internet): «Supponiamo che, per contrastare le emissioni di CO2 che portano al RG (riscaldamento globale, ndr), qualcuno inventi il motore ad acqua. Da un giorno all’altro avremmo dato un grosso taglio ai cosiddetti gas-serra e avremmo registrato un grosso successo nella lotta contro il RG. Ma cosa succederebbe delle società petrolifere, dei Paesi che traggono i loro redditi dal petrolio, dei trasporti con petroliere, dei distributori di benzina, di tutto l’indotto di questi settori? Ci sarebbe un massiccio “riprezzamento” di tutte queste attività, con fallimenti a catena che minaccerebbero la stabilità finanziaria». L’“industria verde” deve dunque accompagnarsi a una “finanza verde”, per evitare di trovarsi “al verde”.
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