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Inauguriamo il nuovo anno riprendendo un fatto di cronaca avvenuto su un territorio molto vicino alla nostra sezione, ovvero allo stadio della Pro Patria, Busto Arsizio. La notizia ha fatto il giro delle testate nazionali, avrete già intuito di che si tratta. Giovedì 3 gennaio si è giocata un’amichevole -per molti, ma non per tutti- tra il Milan e la Pro Patria. Tutto bene fino al 26esimo minuto, quando il giocatore del Milan Kevin-Prince Boateng ha scagliato il pallone contro la tribuna, esasperato dagli insulti razzisti che alcuni tifosi stavano rivolgendo a lui e ad altri suoi compagni di squadra. La sua squadra ha poi deciso, per protesta, di abbandonare il campo e sospendere quindi la partita.

Come sempre i commenti sulla stampa si sono concentrati su questioni collaterali e superficiali. Boateng ha fatto bene a reagire a quel modo? Giusto abbandonare il campo o sarebbe stato meglio continuare? C’è cascato anche l’allenatore della Roma Zdenek Zeman, sottolineando inutilmente che per quella pallonata «un altro giocatore sarebbe stato espulso automaticamente». O meglio, lui poi ha detto altre cose, esprimendo il suo pensiero sulla questione delle offese, razziali e non, che vengono dagli spalti, ma poi i giornali hanno ripreso solo quella frase. Niente di nuovo sotto il sole.

A noi proprio non va giù che possano avvenire episodi del genere. Saremo un po’ “duri”, ma non capiamo quale sia il nesso tra l’andare a vedere una partita di calcio e l’esprimere commenti razzisti verso questo o quel giocatore. Lo ammettiamo, a noi l’insulto non piace in generale. Preferiamo lo stile del rugby: la partita è in campo, attorno è un’unica grande festa. È chiedere troppo? Eppure il calcio dovrebbe unire, non dividere. È ancora, crediamo, uno sport che può emozionare, portare dalla disperazione all’estasi in un secondo, in un’azione.

O forse no, forse siamo degli illusi. Forse lo stacco tra giocatori con stipendi a troppi zeri e gente comune sempre più in difficoltà ha creato una tensione difficile da gestire. Forse la tolleranza delle società verso la presenza negli stadi di certi personaggi è andata troppo oltre, a discapito delle famiglie che invece li hanno abbandonati, e che la partita preferiscono guardarla da casa, in televisione, al sicuro; o non guardarla affatto. Troppo pavidi i dirigenti (di squadre e di governo) di casa nostra per avviare provvedimenti seri come quelli che hanno trasformato gli stadi d’Inghilterra da zona franca per i violenti hooligans a luoghi riconquistati dalla normalità di una domenica di svago. E invece in Italia niente, ancora condannati all’eterno ritorno dell’uguale. Cosa ci rende così restii al cambiamento? La sensazione di impunità? La noia? La frustrazione? Anche noi, che cerchiamo ogni giorno di interpretare e trovare un senso a ciò che succede nel Paese, facciamo fatica a comprendere.