La Commissione europea ha comminato a Apple il pagamento di 13 miliardi di euro al fisco irlandese, dove ha una delle sue sedi. L’azienda ha risposto di aver sempre pagato le tasse secondo le leggi del Paese, il governo di Dublino dice di non volere quei soldi. Ancora una volta, c’è grande confusione normativa sulla tassazione dei profitti delle multinazionali, e queste ultime sanno bene come approfittare di questa incertezza. Come avrete letto, negli ultimi dieci anni Apple ha potuto godere di un regime fiscale agevolato nella sua sede irlandese, versando al fisco l’1 per cento dei profitti nel 2003, e dall’anno successivo addirittura solo lo 0,005 per cento.

Nella lettera pubblicata da Apple sul suo sito internet si insiste sul fatto che «i profitti di un’azienda devono essere tassati là dove l’azienda crea valore. Apple, l’Irlanda e gli Stati Uniti concordano su questo principio». Di conseguenza: «Quasi tutte le operazioni di ricerca e sviluppo si svolgono in California, quindi la stragrande maggioranza dei nostri profitti è tassata negli Stati Uniti». Secondo l’indagine della Commissione le cose sono un po’ più complicate, e Apple avrebbe creato un sistema di società apposta per evitare di riconoscere le giuste tasse al fisco irlandese (e questo col beneplacito di quest’ultimo che, paradossalmente, ha annunciato ricorso per non riscuotere il dovuto): «Due società controllate da Apple (Apple Sales International e Apple Operations Europe) con sede in Irlanda producevano ricavi “non corrispondenti alla realtà economica” – spiega il Post –: praticamente tutti i ricavi derivanti dalle vendite segnati dalle due aziende erano attribuiti a un generico “ufficio centrale” che per la Commissione “esisteva solo sulla carta e non poteva generare quel tipo di profitti”».

Non si tratta certo del primo caso in cui qualcuno esige da Apple tasse non pagate, ci è passata anche l’Italia, come spiega Angelo Mincuzzi sul Sole 24 Ore: «In Italia Apple ha raggiunto un accordo con l’Agenzia delle Entrate per porre fine a un contenzioso sul mancato versamento di 879 milioni di euro di imposte e ha pagato 318 milioni di euro alla fine dello scorso anno. Gli utili ottenuti dalle vendite in Italia finivano in Irlanda, dove l’imposizione fiscale è molto più bassa. Ma il Fisco e la procura di Milano hanno posto fine a questo stratagemma». Apple non è ovviamente l’unica multinazionale ad affidarsi a simili meccanismi per ridurre al minimo l’imposizione fiscale sui propri affari.

Si potrebbe dire che l’elusione fiscale (e in certi casi anche l’evasione) sia parte integrante del funzionamento di questo tipo di aziende che, se fossero costrette a operare senza l’aiuto dei cosiddetti “paradisi fiscali”, non riuscirebbero a viaggiare a certi ritmi di crescita. E qui subentra il primo dubbio etico in merito alla questione: se Apple e il governo irlandese dovessero perdere il ricorso, e l’azienda di Cupertino decidesse di abbandonare l’Irlanda (dopo aver pagato i 13 miliardi dovuti), che ne sarebbe dei 6mila dipendenti impiegati nella sede di Cork? Nella sua lettera, Apple fa leva sulla spinta occupazionale e di sviluppo dell’economia che il suo arrivo ha comportato per il territorio irlandese: «In quegli anni Cork soffriva di un tasso di disoccupazione altissimo e di investimenti economici quasi inesistenti. Ma i dirigenti Apple vi riconobbero una comunità ricca di talenti, capace di sostenere la crescita dell’azienda se il futuro fosse stato favorevole. […] Oltre a evidenti ripercussioni per Apple, questa sentenza avrà effetti profondamente negativi sugli investimenti e sulla creazione di lavoro in Europa. Se valesse la teoria della Commissione, qualsiasi azienda in Irlanda e in Europa correrebbe improvvisamente il rischio di vedersi tassata in base a leggi mai esistite».

Il solo fatto che si sia aperto questo contenzioso potrebbe portare altre multinazionali a lasciare l’Irlanda, che a quel punto diverrebbe un territorio “pericoloso” per la tenuta dei vari meccanismi di elusione fiscale. Giusto dunque preservare l’occupazione e lasciare tutto com’è, oppure sfidare i “giganti” dell’economia globale affinché paghino il giusto, a costo di scontare un improvviso aumento della disoccupazione? È uno dei temi più complessi e controversi di quest’epoca di “turbocapitalismo”. Nel ragionare su questi temi, viene in mente anche la vicenda Brexit e le sue possibili conseguenze. Inizialmente si è temuto che molte compagnie finanziarie avrebbero abbandonato la City of London a causa dell’incertezza generata dall’uscita del Paese dall’Ue. L’altra faccia della medaglia è che, al contrario, l’esito del referendum (quando la procedura sarà completata) libera definitivamente il Regno Unito dai controlli della Commissione europea, trasformando l’ex membro dell’Unione in un territorio a bassa pressione fiscale sugli utili e al riparo dalle limitazioni comunitarie. Tra l’altro il trasloco per le aziende, vista la contiguità geografica, sarebbe anche comodo.

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