La vicenda giudiziaria del cantautore Gino Paoli mette in luce diversi aspetti interessanti per capire come vanno le cose in Italia. Il processo per evasione fiscale che lo vede coinvolto è stato interrotto e l’imputato non sarà processato in quanto non è possibile stabilire la data in cui è avvenuto il reato, che dunque si considera prescritto. Il reato in questione è legato al trasferimento di due milioni di euro in un conto bancario svizzero, che avrebbero prodotto 800mila euro di tasse non versate all’erario.

Lungi da noi voler attribuire all’artista genovese tutti i mali del mondo: nessuno è senza macchia, e il sistema stesso spinge spesso il contribuente a trovare soluzioni alternative al pagamento di quanto dovuto allo Stato. È un circolo vizioso: siccome le tasse sono troppo alte si cerca di aggirarle (o pagarne solo una parte), il che produce minori introiti all’erario, che così alza ulteriormente le aliquote (aumentare i controlli costerebbe troppo). Il risultato è che chi pagava pagherà ancora di più (o magari comincerà a evadere), mentre chi pagava solo in parte o non pagava proprio continuerà con la stessa politica.

C’è però differenza tra il comune cittadino e i personaggi pubblici, sia come quantità di denaro spostate, sia per quanto riguarda la risonanza delle loro azioni. Se una persona comune si impegna a chiedere sempre lo scontrino o la fattura quando fa una transazione, sicuramente sta facendo qualcosa di meritorio, che contribuisce a diffondere una cultura di legalità e correttezza, ma con un’eco limitata a un piccolo contesto sociale. È una piccola battaglia, che vale certamente la pena di essere sostenuta, ma che ha tempi e conseguenze che necessitano di molto tempo. Diverso è il discorso per i grandi nomi del discorso pubblico. Gino Paoli ha parlato di un sistema «diffuso» di pagamenti in nero per le serate. Peraltro i due milioni di cui sopra riguardano compensi «perlopiù ricevuti in nero alle feste dell’Unità», dove evidentemente il rosso non era l’unico colore gradito. Magari a livello giudiziario può essere un’argomentazione che tiene, ma a livello dialettico non ha grande forza.

Se sei un artista famoso, puoi sfruttare il tuo “potere contrattuale” per opporti a sistemi “diffusi” di evasione fiscale. Se il committente non è disposto a stipulare un regolare contratto per l’esibizione, questa non si fa, oppure si va alla contrattazione per concordare un prezzo più basso per l’esibizione (si tratta pure sempre della festa dell’Unità). Accettare quel sistema vuol dire contribuire ad alimentarlo. Peraltro Gino Paoli è noto anche per il suo ruolo di presidente della Siae, che ha svolto tra il 2013 e il 2015. Durante la sua presidenza ha dichiarato in un’intervista che «Il problema è che noi siamo un popolo che considera le tasse come gabelle, come qualcosa di ingiusto». In quel momento, seguendo le date pubblicate dai giornali, i suoi milioni erano ancora in Svizzera. È un problema comune anche questo: si tende a disprezzare il “popolo italiano”per le sue cattive abitudini, ergendosi a cittadini moralmente ineccepibili, senza rendersi conto che è molto difficile dimostrarsi totalmente coerenti con quanto si va dicendo.

La politica di Gino Paoli da presidente dell’ente monopolista in Italia per il diritto d’autore è stata tutta incentrata nella lotta alla pirateria, portando nel 2014 (con la complicità del Ministero della cultura) all’aumento spropositato della tassa conosciuta come “equo compenso” (ne abbiamo parlato qui). Se prima per ogni smartphone venduto in Italia il consumatore pagava 90 centesimi alla Siae, come presunzione di utilizzo di materiale coperto dal diritto d’autore nel telefono, dopo l’aumento il contributo è diventato di 4 euro. La storia che si raccontava allora è che il costo sarebbe ricaduto sui produttori (senza aumenti di prezzo per i consumatori dunque). La realtà è che Apple e Samsung, per fare due nomi, hanno subito adeguato al rialzo i prezzi sul mercato italiano. Una tassa che in molti Paesi neanche esiste, da noi viene addirittura inasprita. In che modo questo tutelerebbe i giovani artisti?

Si potevano fare tante altre cose per innovare la Siae e renderla un organo che tuteli anche i piccoli autori, invece di continuare ad arricchire quelli che guadagnano più di tutti. Per esempio, snellendo la struttura e digitalizzando maggiormente le procedure si sarebbero risparmiate risorse preziose che potevano essere redistribuite agli autori. Se non altro, il nuovo presidente Filippo Sugar sembra aver preso questa direzione. Possiamo considerarlo, indirettamente, un primo risultato della direttiva Barnier.

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