La visione del film Il caso Spotlight è un’esperienza che proietta in un mondo che può sembrare fittizio, in cui un gruppo di quattro giornalisti viene esortato dal proprio direttore a svolgere un’inchiesta, prendendosi tutto il tempo necessario, su una serie di casi di pedofilia da parte di preti cattolici a Boston, coperti dalla Chiesa locale. Visto da chi si occupa di informazione in Italia, a colpire sono le modalità di lavoro della redazione, ancor più del caso in sé. Quello a cui assiste lo spettatore per due ore abbondanti è il migliore esempio di giornalismo investigativo che sia mai stato portato sul grande schermo dai tempi del caso Watergate (finito su pellicola grazie al film Tutti gli uomini del presidente). Nella redazione del Boston Globe esiste infatti dal 1970 un team composto da quattro giornalisti, che sono chiamati a occuparsi, con la massima libertà, di argomenti che meritino inchieste approfondite, prendendosi tutto il tempo necessario a effettuare le indagini, raccogliere indizi, testimonianze, prove. L’esperimento, che prosegue tuttora, nasce sul modello dell’Insight Team dell’inglese Sunday Times.

Il caso di cui si parla nel film comincia a essere seguito nella seconda metà del 2001, quando nella redazione del giornale di Boston arriva il nuovo direttore Martin Baron. Questi ritiene che meriti attenzione un articolo, pubblicato dal giornale stesso, che parla di un’accusa a un prete cattolico di aver abusato di molti bambini. Inizialmente la redazione è portata a pensare che si tratti di un caso isolato, ma Baron “fiuta” lo scoop e chiede al team Spotlight di approfondire. Dopo mesi d’indagini, i quattro giornalisti arriveranno a scoprire un sistema della Chiesa locale volto a coprire gli abusi, risarcire con accordi privati le vittime e trasferire continuamente di sede i preti colpevoli, in modo che non lascino tracce nelle comunità in cui operano. Il primo articolo viene pubblicato solo nel 2002 (più tardi del previsto a causa degli attentati alle Twin Towers), e da lì ne seguiranno altri, a centinaia, che porteranno a indagini della magistratura, arresti, risarcimenti milionari, cambi al vertice della Chiesa e poi a una serie di indagini gemelle in altre parti degli Stati Uniti e del mondo.

La cosa scioccante è che quanto raccontato è tutto vero. Il film è stato realizzato collaborando con i giornalisti protagonisti della vicenda, e la sua bellezza sta anche nel non ricercare a tutti i costi momenti di alta drammaticità, con un rispetto per la verità e per le vittime esemplare. Impossibile non fare confronti con la realtà italiana, dove il giornalismo investigativo non ha mai attecchito.

Da noi i giornali non hanno mai conosciuto una reale indipendenza dal potere, ma tutto si svolge in un clima di collaborazione e tutela dei reciproci interessi. Indimenticabile la scena del film in cui Baron, appena nominato direttore, viene ricevuto dall’arcivescovo di Boston Bernard Francis Law, che gli offre tutta la propria disponibilità in quanto, secondo lui, le massime istituzioni della città dovrebbero stare vicine tra loro. Baron, con una cortesia glaciale, ringrazia ma precisa che prerogativa del giornalismo è proprio mantenersi indipendente dalle istituzioni. Una scena del genere, purtroppo, qui da noi non riusciamo a immaginarla, almeno per quanto riguarda i grandi giornali, i livelli apicali. Non c’è dubbio infatti che nelle testate locali, sia cartacee che su web, ci siano giornalisti che fanno un lavoro oscuro ma importantissimo (spesso da freelance, senza tutele né stabilità economica), mettendo a rischio la propria carriera e spesso la propria incolumità, per smascherare scandali del proprio territorio che poi magari, quando diventano appetibili, arrivano alle cronache nazionali.

Come scrive Maurizio Ravelli, in Italia nei giornali italiani «I tempi dedicati a un’inchiesta sono ridicolmente brevi. E le inchieste si riducono a raccontare una situazione, mettendo in fila alcune voci. Se si investe su un tema, è casomai per una campagna di stampa. Uno o due articoli confezionati in fretta, e altri che seguono, sperando che nel frattempo escano nuovi elementi. Intendiamoci, dietro una campagna di stampa c’è un sacco di lavoro ben fatto, ma è un’altra faccenda».

Un fenomeno più diffuso qui da noi sono i giornalisti che pubblicano libri. Come a testimoniare il fatto che la redazione non sia il luogo adatto ad affrontare certi temi, che richiedono pazienza, meticolosità, ma anche protezione legale (e fisica) da parte dell’editore. Mettere le inchieste nei libri significa rinunciare alle potenzialità di diffusione che possono avere le notizie sui giornali (siano essi cartacei o digitali), al loro essere agganciati al qui e ora. Il libro ha tempi più lunghi di stampa, distribuzione, promozione. Segue altre logiche. In Italia si muove prima la magistratura, il giornalismo segue. È stato così per Calciopoli e prima per Tangentopoli. Certo anche nel mondo anglosassone si fa del pessimo giornalismo, ma i picchi che si raggiungono da quelle parti fanno impallidire le nostre testate più blasonate. Fa riflettere il rimorso che colpisce uno dei protagonisti, Walter “Robby” Robinson (interpretato da Michael Keaton), quando si rende conto che anni prima aveva avuto per le mani la segnalazione di abusi da parte di preti a Boston, ma aveva preferito confinarla alla cronaca locale, permettendo così che le molestie continuassero. Un esempio di quali danni possono provocare l’autocensura e il rifiuto delle prerogative della professione giornalistica.

Foto Di Utente:Bart ryker – trailer ufficiale, Copyrighted