Che cos’è il giornalismo 2.0? Lo spiega (decretandone al contempo l’esistenza) il direttore de l’Unità Erasmo D’Angelis, in risposta a una richiesta del Corriere in merito alla notizia “bufala” sulla presenza di Virginia Raggi (candidata sindaco di Roma per il M5S) nel video del 2008 “Meno male che Silvio c’è”. Ecco di seguito il breve scambio avuto tra la giornalista Maria Rosaria Spadaccino e D’Angelis:
Non avete pensato ad una rettifica quando la Raggi vi ha smentito?
«No, perché non è un’operazione politica, ma è giornalismo 2.0».
Vuol dire che non si fanno più verifiche?
«Voglio dire che la comunicazione social punta molto sulla quantità e sulla velocità. Sono sicuro che anche il Corriere.it avrebbe caricato il video».
Ma lei non crede che potevate controllare?
«La somiglianza è oggettiva e i social pieni di “smanettoni” che segnalano foto e video. Questo è accaduto».
Ha richiamato il responsabile del suo sito?
«No, perché ha fatto bene a pubblicare quel video».
Ha fatto bene a pubblicare una «bufala»?
«Il web ha modificato profondamente il giornalismo, sui siti e sui social gira di tutto».
Infine la Raggi deve ringraziarla?
«Sì, direi di sì».
Per il direttore del giornale fondato da Antonio Gramsci (e poi affondato varie volte dalle gestioni successive), “giornalismo 2.0” è sinonimo di assenza di verifica, di totale sudditanza verso ciò che si dice sui social network, nonché sulla possibilità di pubblicare una notizia palesemente falsa senza rettificarla. In seguito alla risposta della candidata, il giornale ha in seguito modificato la pagina in cui riportava il proprio “scoop”, specificando nel titolo che «Virginia Raggi risponde», nel sommario che «lei dice di no…» (con puntini sospensivi allusivi). Finalmente, nella prima riga del breve intervento si dice chiaramente come stanno le cose: «Non è Virginia Raggi la ragazza bruna che compare nel video “Meno male che Silvio c’è”».
Sappiamo bene che i giornali non hanno preso bene la novità del web, e che ancora non hanno trovato un modello economico efficace per continuare a esistere anche dopo le pesanti perdite dovute al calo delle vendite nelle edicole. La “dittatura del clic” ha preso il sopravvento, imponendo a tutti (chi più, chi meno) la pratica del clickbaiting, ossia il fatto di comporre titoli allusivi nei quali manca un’informazione fondamentale, che si promette di rivelare all’interno dell’articolo. Il problema è che (nel peggiore dei casi) questa informazione poi non c’è, oppure c’è ma in forma dubitativa, come nel caso in questione. L’articolo in origine proponeva il fatto come ipotesi, come a lavarsi le mani dalla possibilità che si trattasse, come si è dimostrato, di una “bufala”. Intanto il video è comparso, è arrivata la smentita, le polemiche, ma soprattutto i clic. Obiettivo raggiunto, in barba a qualunque principio deontologico sulla verifica delle notizie e sull’obbligo di rettifica. Il che non è una novità, intendiamoci. Colpisce l’ammissione di colpa, con la placida risposta del direttore sul fatto che i nuovi principi del “giornalismo 2.0” impongono «quantità e velocità». Eppure bastava una telefonata per chiedere alla diretta interessata se nel 2008 avesse partecipato alle riprese di quel video. Poi si poteva pure decidere di pubblicare lo stesso il video, se proprio lo si riteneva necessario, come “curiosità”, parlando di una somiglianza, senza fingere di dare dignità di notizia a una coincidenza del genere.
Non che quello de l’Unità sia un caso isolato, la pratica del “boxino morboso” dilaga su tutti i maggiori siti d’informazione, infestandoli con notizie di grande spessore quali raccolte di fotografie dei più ricchi rampolli russi o di animali che somigliano a personaggi famosi. Nel caso l’Unità-Raggi però si tira in ballo una persona che, indipendentemente dallo schieramento, è impegnata in un percorso politico. Ipotizzare che fosse tra i figuranti di un video dedicato a Silvio Berlusconi può creare confusione tra i suoi simpatizzanti.
Se dunque il ruolo del giornalismo dovrebbe essere (anche) quello di aiutare il cittadino a interpretare la realtà, selezionando una serie di fatti tra gli infiniti possibili e riportandoli al lettore con la maggiore accuratezza possibile, allora quello fatto da l’Unità in questo caso non è giornalismo. E non ha senso chiamarlo “giornalismo 2.0”, come se avesse un’attinenza con le buone pratiche che hanno portato, negli anni, alle grandi inchieste che hanno scosso i poteri forti. Ci piacerebbe che con questa formula si indicasse, per esempio, quello che ha permesso la pubblicazione dei Panama Papers, con un grande team di lavoro che ha coinvolto centinaia di giornalisti di tutto il mondo, proprio grazie alle possibilità di collaborazione “in remoto” date dal web. Woodward e Bernstein, da soli, non ce l’avrebbero mai fatta a gestire una mole di dati così ampia. C’è voluto lo sforzo congiunto dell’International Consortium of Investigative Journalists. Speriamo che da quelle parti non scoprano mai il “giornalismo 2.0”.
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