Uno degli ambiti in cui la discriminazione di genere è più lampante è il divario di retribuzione tra donne e uomini (gender pay gap). Il problema non è solo il salario, ma si concretizza per esempio nel minore numero di donne con un’occupazione rispetto agli uomini, nelle minori opportunità offerte alle donne e nella loro minore presenza in posizioni di alto profilo.

Irene Solmone su Lavoce.info ha presentato i dati dell’ultimo Global Gender Pay Gap Index, un indice che calcola il divario di genere secondo quattro dimensioni: partecipazione e opportunità economiche, istruzione, salute e sopravvivenza, empowerment politico. Di seguito un grafico che illustra quanto è stato “chiuso” il Gender Pay Gap nei diversi settori a livello mondiale. Un valore più alto indica una minore disparità di trattamento e opportunità tra maschi e femmine.

Come si può vedere, salute e istruzione sono i settori in cui l’indice (che va preso in quanto tale e non come una misura oggettiva) rileva una minore disparità, mentre sul lato economico e soprattutto sulla partecipazione politica ci sono i problemi maggiori. «L’Italia – spiega l’articolo – si trova al 63esimo posto nella classifica dei 156 paesi per cui il Global Gender Gap Index è stato calcolato, al 19esimo posto tra i 22 paesi di Europa Occidentale e Nord America, con un punteggio dell’indice di 0,721 (0 rappresenta la totale disuguaglianza di genere, 1 la totale parità). Rispetto all’anno scorso è salita di 13 posizioni, e l’indice generale è migliorato di 0,014 punti». I progressi negli ultimi anni, che pure ci sono stati, sono comunque molto modesti e in nessuno dei quattro settori c’è stato un miglioramento consistente. Peraltro, com’è noto, la crisi occupazionale causata dalla pandemia ha colpito le donne più degli uomini: «Secondo l’Organizzazione internazionale del lavoro, circa il 5 per cento delle donne nel mondo ha perso il lavoro; 1,1 punti percentuali in più  rispetto alla perdita per gli uomini. La differenza è dovuta anche al  fatto che in termini assoluti le donne occupate sono meno degli uomini,  per cui la perdita percentuale è stata più elevata, mentre quella  assoluta è stata inferiore. Inoltre, la partecipazione alla forza lavoro è calata più severamente per le donne, perché spesso sono toccati a  loro i compiti di cura della casa e della famiglia». Bisognerà attendere la rielaborazione dell’anno prossimo per rendersi conto di quanto la pandemia abbia influito sull’indice.

Stereotipi latenti

Un articolo di Lucia Zabatta su inGenere illustra quali sono alcune forme meno evidenti di discriminazione di genere in ambito lavorativo (definite indirette), che non vengono catturate dai dati sulla retribuzione e l’occupazione ma contribuiscono a determinare il contesto. «La regolarità delle condizioni salariali – scrive Zabatta – imposta dalla legislazione in materia retributiva può nascondere, infatti, altre forme di discriminazione o di segregazione indirette: dalle condizioni ineguali nell’accesso al mercato del lavoro ai condizionamenti socio-culturali nella scelta del percorso formativo, con ricadute sulle opportunità professionali; da norme sociali e pressioni affettive, ancora molto marcate nei confronti delle donne, per la cura dei familiari (che sono di ostacolo al perseguimento delle carriere) alla sottovalutazione di lavori considerati “femminili”». Si tratta di variabili che agiscono su tutto il percorso di vita della popolazione femminile, che ne definiscono il percorso fin dalle prime scelte legate all’istruzione e alla vita personale e lavorativa. «Le discriminazioni indirette si annidano in stereotipi latenti che influenzano, anche in modo inconsapevole, l’agire di tutti i soggetti, comprese le donne, e che incidono sulla definizione delle condizioni di lavoro nel loro complesso, generando segregazione occupazionale e retributiva». Un esempio su tutti è la funzione di “cura”, sempre più importante ma non abbastanza riconosciuta: «Il lavoro di cura che si realizza col valore aggiunto dell’attenzione – del farsi carico delle aspettative dei “pazienti”, delle istanze di “clienti” e “utenti”, delle esigenze di “discenti” di ogni ordine e grado – concretizzando, di fatto, saperi distintivi e competenze sofisticate, è diventato il requisito indispensabile per tutte le attività che pretendono intelligenza relazionale, siano esse svolte da specialisti o da ausiliari. Ciononostante, il valore aggiunto che ne deriva non lambisce chi lo produce. Il lavoro di “cura” rimane, a tutt’oggi, il grande escluso dalla dimensione politica e da quella economica».

(Foto di Sandy Millar su Unsplash )

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