«Uno di meno» è forse il commento più spietato fatto da una guardia penitenziaria in seguito al suicidio, nel carcere di Opera, di un detenuto, Ioan Gabriel Barbuta, rumeno di 39 anni. È solo un esempio tra i tanti, ma dà l’idea del tenore delle reazioni alla notizia pubblicate da alcuni agenti su una pagina Facebook di un sindacato della polizia penitenziaria. Da tempo su ZeroNegativo denunciamo il grave problema in cui versano le carceri italiane, dato soprattutto dal sovraffollamento delle strutture, che costringe i detenuti in spazi molto meno che sufficienti a condurre una vita dignitosa, e al contempo il personale giudiziario a lavorare in condizioni inaccettabili. Al di là del concetto di “mele marce”, che associa a una categoria nel complesso sana (la polizia penitenziaria) una serie di soggetti devianti e da condannare, non è fuori luogo immaginare che siano anche le condizioni di lavoro e di vita a esacerbare conflitti altrimenti gestibili.
Al netto di tutto questo, non è tollerabile che in un Paese che si dice civile qualcuno che indossa un’uniforme e che quindi rappresenta le istituzioni gioisca pubblicamente per la morte di qualcun altro. Anzi, la polizia dovrebbe impegnarsi a garantire la sicurezza dell’individuo. Ma quale idea di sicurezza può trasmettere chi si esprime come un delinquente qualsiasi impegnato in una lotta tra bande rivali? Faceva notare ieri su Repubblica Michele Serra che a sconvolgerlo sono state le motivazioni per cui i responsabili di quella pagina Facebook hanno deciso di rimuovere quei commenti oltraggiosi: «Non sono stati cancellati perché ripugnanti. Non perché inaccettabili da parte di dipendenti dello Stato, e sulla pagina ufficiale di un sindacato; non perché esultare per una morte è comunque, ovunque disgustoso; ma perché “hanno ingenerato strumentalizzazioni tali da comportare un possibile danno di immagine al Corpo di Polizia penitenziaria”».
Cosa ci sia da strumentalizzare in frasi come «Uno di meno» è difficile stabilirlo. Serra riassume poi il problema fondamentale che mette in cattiva luce l’intera classe della polizia penitenziaria a fronte di episodi simili: «Un sindacato (qualunque sindacato) ha il dovere e il diritto di denunciare le condizioni di durezza, di basso salario, di scarsa considerazione nelle quali lavorano i suoi iscritti. Lavorare nelle carceri e in generale per l’ordine pubblico, per garantire la tranquillità e la pace di chi ha la pancia piena, non è facile e meriterebbe maggiore rispetto e considerazione da parte dello Stato e della collettività intera. Ma uomini in divisa che ragionano (e scrivono) da delinquenti, con un gergo cinico e sbracato, perdono il diritto a qualunque rivendicazione».
Ora sarà sanzionato qualche agente, come ha chiesto il ministro della Giustizia Andrea Orlando, mentre nel frattempo altri colleghi si chiederanno come mai non si dia lo stesso risalto e la stessa punizione esemplare quando le violenze sono commesse dai carcerati nei confronti delle guardie. Come scrive Riccardo Arena sul Post, il carcere somiglia sempre di più a un altro luogo di detenzione: «Un canile, il peggiore, dove custodi e custoditi subiscono le conseguenze quotidiane dello stesso degrado, comportandosi di conseguenza e in modo simile. Il cane abbaia rabbioso per quella gabbia fatiscente e il custode lo picchia selvaggiamente. Esattamente ciò che avviene oggi negli istituti penitenziari, con l’unica differenza che gli agenti possono scrivere su Facebook e i detenuti ovviamente no».
Il breve documentario sulla “Cella zero” di Poggioreale, realizzato da Salvatore Esposito e pubblicato sul sito di Internazionale, richiama l’attenzione su una brutta storia di violenze perpetrate per anni dagli agenti ai danni dei detenuti del centro di detenzione napoletano. Le indagini sono in corso, ma le testimonianze degli ex detenuti lasciano intendere che in quella cella il detenuto era messo nella condizione di massima vessazione: nudo, picchiato a sangue (ma coi guanti), senza possibilità di denunciare se non affrontando pesanti ritorsioni. Non è una questione di mele marce, ma di un sistema che va completamente rivisto, di problemi che vanno affrontati in modo diverso. Uscire orizzontale da un carcere è la sconfitta di tutto il sistema, che non deve solo difendere chi sta fuori dal carcere, ma anche fare in modo che chi ci entra ne esca in qualche modo migliorato, pronto a tornare nella società che l’ha punito per averne violato le leggi. Ma quale miglioramento ci può essere in una ambiente in cui l’unica legge è quella del più forte?