Ora che l’ubriacatura dell’Expo è giunta quasi al termine, viene da chiedersi se tutta questa attenzione sul cibo sia “sana” come la cultura gastronomica che si vuole promuovere, oppure no. Al di là di giudizi sbrigativi, non si può non notare la discrepanza tra il progetto iniziale e quanto realizzato effettivamente. L’immenso terreno occupato da Expo2015 avrebbe dovuto ospitare anche aree coltivate, in cui mostrare ai visitatori le particolari varietà di piante, frutta e ortaggi di ogni Paese. Questo non è stato fatto, ma si è optato per una più tradizionale colata di cemento, sulla quale costruire i vari padiglioni. «Nel cluster del riso – racconta con ironia e disincanto lo scrittore Vincenzo Latronico – si può osservare una ricostruzione dei campi che occupavano il territorio dove sorge l’Expo prima che fossero distrutti per costruire l’Expo».
Lo storico John Foot, dopo aver visitato l’esposizione universale, pone alcuni interrogativi fondamentali: «La vera domanda non è “come”, “cosa” e neppure “dove”, ma “perché”? A cosa serve tutto questo? Forse questo “grande evento” diffonderà informazioni sul cibo, su come viene prodotto o su come salvare il pianeta? Ne dubito. Stupirà ed emozionerà la gente con la sua architettura eclettica e le sue folli installazioni? Dubito anche di questo. Sarà una divertente gita in famiglia? Forse, ma non particolarmente divertente».
Tornando all’analisi di Latronico, è interessante come lo scrittore rilevi che «All’Expo, la fiera del cibo, la presenza dominante non è il cibo ma il linguaggio». Egli nota una grande presenza di comunicazione relativa al cibo, ma per chi visita i vari padiglioni l’esperienza diretta col cibo non è l’aspetto principale. Un po’ perché i costi sono proibitivi, un po’ perché, a suo dire, la qualità è pessima. Anche il linguaggio fallisce però il risultato educativo e informativo. La cartellonistica predominante mira «piuttosto a sbalordire e a mostrare visivamente». A dominare è «il linguaggio del racconto, dello storytelling, e cioè il linguaggio della pubblicità. Lo si riconosce dalla struttura semplice e suadente, dall’insistenza su concetti morali e dal fatto che sia pieno di ordini».
La narrazione relativa al cibo ha talmente preso piede che anche nella Mecca costruita apposta per celebrarlo, in realtà predomina un racconto vuoto, pensato con gli strumenti del marketing. È una riflessione che fa anche lo scrittore e giornalista argentino Martín Caparrós, autore di libri e articoli sui problemi legati all’accesso al cibo, argomento molto più concreto. Difficile in una struttura come l’Expo, costata 14 miliardi di euro, affrontare argomenti come la fame nel mondo, che colpisce ancora oggi un miliardo di persone. Ecco perché l’ossessione per il discorso sul cibo ha qualcosa di morboso, di immorale, se pensiamo che al problema della fame si contrappongono grandi e costosi eventi o i numerosi programmi televisivi che incoronano i vari “master chef” sparsi nei Paesi ricchi. Secondo Caparrós sta cambiando il nostro rapporto col cibo, entrato nelle logiche della società dello spettacolo: «Il cibo, la cosa più materiale che c’è, quella più intima, è entrato nella logica dello spettacolo o della masturbazione. È un sintomo: passiamo ore a guardare da lontano quello che prima toccavamo, annusavamo, ingoiavamo. Forse è il cambiamento necessario per trasformare la gastronomia nell’arte del momento. Non è difficile: non è cara, non richiede formazione, ci sentiamo in grado di capirla».
La premessa per l’ascesa del cibo da mezzo di sostentamento (e di piacere) a opera d’arte è la concentrazione della ricchezza, che si concentra i pochi Paesi mentre molti altri sono ridotti alla fame. L’Italia, con la sua cultura culinaria, è peraltro vittima dello sfruttamento di questa sua peculiarità, se si considera che il falso “Made in Italy” genera un mercato di circa 60 miliardi di euro nel mondo. Il Belpaese e i suoi prodotti finiscono nella macchina pigliatutto dello storytelling e il cosiddetto italian sounding (cioè la vendita di prodotti con nomi che ricordano l’Italia, ma che in realtà sono coltivati o realizzati in altri Paesi) diventa uno strumento di marketing. Lasciare intendere che il Parmesan prodotto in Wisconsin abbia una qualche traccia di italianità aiuta a vendere di più, e quindi il mercato non perde tempo a cogliere l’occasione. «Parla come mangi» è un modo di dire ormai sorpassato: a seguirlo si rischia di non capirsi più. A questo punto «parla meno (di cibo), e mangia».
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