Tra le formule ripetute più spesso in merito all’università italiana c’è quella secondo cui il nostro sistema accademico non prepari adeguatamente al mondo del lavoro. Si tratta di un adagio nato probabilmente dal mondo delle aziende, poi accolto anche in altri ambiti. In realtà, forse, non è proprio così. Se si intende dire che l’università non insegna un mestiere allora sì, probabilmente è vero che chi esce da un’università italiana non ha ancora tutto ciò che gli serve per essere totalmente adeguato al mondo del lavoro. Ma è anche vero che certe competenze non si possono che acquisire “sul campo”, dunque hanno bisogno di esperienza reale, che spesso non può essere quella limitata ai tirocini che si fanno parallelamente ai corsi. Per farla semplice: il lavoro si impara lavorando. Ciò che l’università deve fare è preparare lo studente a iniziare la sua vita professionale, dandogli contenuti e capacità di apprendimento. In questo senso allora si può forse ribaltare il luogo comune e dire che invece l’università prepara al mondo del lavoro.

È proprio la definizione di questa “preparazione” il discrimine. Se si intende il fatto di trasferire allo studente le nozioni necessarie a eseguire una serie di operazioni che poi dovrà replicare una volta inserito in un’azienda allora si può certamente dire che l’università non prepara a questo, ma probabilmente non è nemmeno il suo ruolo. “Preparare” lo studente vuol dire fornirgli gli strumenti teorici e le strutture mentali necessarie a trasferire e applicare le sue conoscenze in una situazione lavorativa, integrando il sapere con un saper fare che inevitabilmente andrà acquisito sul campo. Ogni luogo di lavoro è diverso dall’altro, e quindi ogni realtà ha le sue conoscenze e competenze specifiche che vanno acquisite nel corso dei primi mesi d’impiego. È impensabile che qualcuno arrivi già perfettamente formato a svolgere un lavoro in un nuovo luogo d’impiego. Saranno le sue conoscenze specifiche (quelle sì acquisite all’università) e la sua capacità di apprendere e adattarsi a renderlo adeguato.

Dunque, come scrive il linguista Edoardo Lombardi Vallauri su Il Mulino, la causa della difficoltà dei laureati italiani a trovare un impiego va cercata altrove, forse proprio tra quelli che li definiscono “impreparati al lavoro”: le aziende. Ad avvalorare l’ipotesi, Lombardi Vallauri porta l’esempio delle migliaia di neolaureati italiani che, stanchi di arrabattarsi tra lavoretti lontani dal loro percorso di studi, si trovano costretti a emigrare, scoprendo dopo pochi mesi che altrove esiste un mercato del lavoro che è in grado di favorire lo sviluppo delle loro professionalità, facendone una risorsa. «Se i nostri laureati non trovano lavoro in Italia ma lo trovano facilmente all’estero, significa che i nostri laureati non sono ben preparati, oppure invece che il nostro sistema economico non è capace di offrire lavoro? Insomma, come si può dare la colpa all’università se i nostri laureati non possono lavorare qui ma possono presso aziende straniere?». Ridefinite meglio le parole e i loro significati, il bersaglio si sposta ancora più decisamente dal mondo dell’istruzione a quello delle aziende.

Forse c’è un’aspettativa sbagliata su ciò che i giovani dovrebbero già saper fare prima di entrare in azienda. Il cortocircuito è rivelato da molti annunci di lavoro in cui si cercano “giovani neolaureati con esperienza”. Magari si potrebbe lavorare meglio sul lato dello svolgimento, durante il percorso di studi, di tirocini o altre esperienze professionali (cosa che, in misura diversa a seconda degli atenei, già si fa). Ma anche questa è un’idea parzialmente sbagliata, perché ci sono corsi in cui le possibilità di sviluppo lavorativo sono talmente diversificate che sarebbe molto difficile azzeccare, durante gli studi, il tipo di mansione che si finirà a fare dopo. «Basta bazzicare il mondo aziendale molto meno di quanto lo bazzico io, che ci tengo corsi da vent’anni – scrive Lombardi Vallauri –, per sapere che non solo in ogni azienda si fa un lavoro diverso, ma che in ogni comparto di una stessa azienda si fa un lavoro diverso; e anzi, in ogni stanza dello stesso comparto della stessa azienda si fa un lavoro diverso».

Sarebbe quindi interessante che fossero proprio le aziende a interrogarsi sul loro modo di cercare, valutare e inserire i giovani nel proprio organico. Ci sono laureati a pieni voti che arrivano a chiedersi se la loro preparazione abbia un qualche valore, perché si vedono rifiutati da un posto all’altro, oppure vedono le proprie possibilità di sviluppo limitate da continui impieghi in ruoli che non hanno nulla a che vedere col loro percorsi di studi, con tutta la frustrazione che ne consegue. Se però, come si diceva, quelle stesse persone trovano mediamente in pochi mesi un lavoro appagante (in termini economici e di valorizzazione delle competenze) all’estero qualcosa vorrà dire. Anche perché spesso si tratta di Paesi in cui il mondo aziendale è in grado di produrre molta più ricchezza del nostro, il che gli dà una certa autorevolezza. Più che dare giudizi sul sistema accademico italiano, le aziende dovrebbero analizzare le proprie politiche del personale, magari proprio studiando ciò che succede fuori dai nostri confini. Detto in altri termini, andando a prendere lezioni da chi il lavoro agli italiani, misteriosamente, è felice di darlo.

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