In un mondo che spesso premia la facilità e l’immediatezza, persiste una peculiare tendenza umana: l’attrazione per le sfide difficili. Dall’assemblaggio di mobili con istruzioni di montaggio notoriamente criptiche alla resistenza in eventi sportivi estenuanti, ci troviamo spesso attratti da sfide che apparentemente non offrono una ricompensa immediata. Questa inclinazione, che gli psicologi hanno definito Paradosso dello sforzo, suggerisce che a volte l’atto stesso di impegnarsi renda il risultato, o addirittura l’esperienza stessa, più prezioso.

Si parla di questo fenomeno in un articolo sull’Atlantic, che fa l’esempio della Comrades Marathon, che si corre in Sudafrica ed è lunga 88 chilometri, dove migliaia di persone spingono volontariamente il proprio corpo fino al limite, alcune con l’obiettivo di vincere o arrivare tra i primi, mentre molte altre si sforzano semplicemente di finire entro il tempo limite di 12 ore per ricevere la medaglia di finisher. I commissari di gara bloccano fisicamente i corridori che non raggiungono questo tempo.

Il paradosso dello sforzo si scontra talvolta con il senso comune. La teoria economica classica, spiega l’articolo, ci suggerisce di preferire la strada più facile per raggiungere il risultato desiderato. Allo stesso modo, la cosiddetta “legge psicologica del minimo sforzo” sostiene che, a parità di risultati, si opterà sempre per l’opzione meno faticosa. Tuttavia, diverse ricerche hanno dimostrato che in generale preferiamo un mobile auto-assemblato a uno identico già costruito, un fenomeno noto come “effetto IKEA”.

Questo comportamento apparentemente irrazionale ha spinto psicologi come Michael Inzlicht e i suoi colleghi a cercare di capire perché il “duro lavoro” possa essere così gratificante. Una spiegazione è che le ricompense ottenute attraverso compiti difficili siano più gratificanti a causa del contrasto con le difficoltà che quel compito implica. Un’altra ipotesi suggerisce una forma di autogiustificazione: dopo aver fatto un grosso sforzo, ci convinciamo del valore intrinseco del risultato ottenuto. È interessante notare che questo effetto non è limitato agli esseri umani: studi condotti su storni e cavallette hanno mostrato una preferenza per le ricompense che richiedevano uno sforzo maggiore per essere ottenute.

Al di là della ricompensa in sé, esiste una teoria secondo cui potremmo imparare a dare valore allo sforzo nel tempo, associandolo a risultati positivi. Inoltre, una teoria cognitiva chiamata elaborazione predittiva suggerisce che impegnarsi in compiti difficili ci fornisce nuove informazioni su noi stessi e sul mondo, un’esperienza che il nostro cervello trova piacevole. Assemblare un tavolino, ad esempio, non solo permette di ottenere il tavolo, ma anche di imparare la sua costruzione e di conoscere le proprie capacità.

In particolare, il paradosso dello sforzo sembra essere legato a sentimenti di significato e di scopo. Inzlicht e il suo team hanno sviluppato una scala per misurare la “significatività dello sforzo”, scoprendo che le persone che ottengono un punteggio elevato in questo senso sono più soddisfatte del proprio lavoro e della propria vita. Essi considerano il lavoro duro come qualcosa di intrinsecamente importante e come una fonte di scopo. Impegnarsi in qualcosa sembra essere la via principale, forse l’unica, attraverso la quale è possibile soddisfare alcuni bisogni, come il bisogno di competenza e di padronanza e forse anche di comprensione di sé. La lezione, conclude l’Atlantic, non è quella di cercare sfide sempre e a tutti i costi, ma di riconoscere che i lavori impegnativi possono essere profondamente soddisfacenti e contribuire a dare senso alle nostre vite. Proprio come i corridori della Comrades si spingono al proprio limite, sapendo che esiste la concreta possibilità di non arrivare alla fine, la soddisfazione del superamento delle difficoltà, per quanto piccole, può essere molto profonda.

(Foto di Pietro Rampazzo su Unsplash)

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