
È il momento di cambiare approccio nella gestione della cultura e del turismo in Italia. È ormai fin troppo chiaro come debba crearsi una sinergia tra i due termini della questione, affinché il secondo funga da volano per rilanciare la prima. A guardare i numeri fatti registrare dal nostro Paese in fatto di turisti stranieri arrivati qui perché mossi da interessi culturali, si intuiscono le potenzialità non sfruttate dal nostro territorio. «Nel 2013 si è trattato dunque di 18 milioni di stranieri (sui 48 milioni totali) arrivati in Italia perché attratti dalla nostra cultura – scrive Stefano Landi su Lavoce.info –. Tra i turisti italiani, invece, la motivazione culturale “pesa” per il 24 per cento: 13 milioni di persone su un totale di 55 milioni sempre nel 2013. I “turisti culturali”, quindi, sono soprattutto stranieri. Su queste basi si arriva a stimare una spesa complessiva dei turisti culturali pari a 9,3 miliardi, di cui il 60 per cento generata dai turisti stranieri: sono sempre loro, quindi, i più grandi “consumatori” di cultura in vacanza».
Applicando i vari moltiplicatori, che calcolano la ricchezza indotta dai consumi culturali in termini di guadagni indiretti e occupazione creata, Landi arriva a stimare che «la cultura “vale” circa 10 miliardi di spesa turistica (pari al 24 per cento del totale nazionale) e 7 miliardi di valore aggiunto; e questo segmento di turismo “impegna” circa 200mila lavoratori, un quarto del totale del settore». Da questi pochi dati emerge con chiarezza il fatto che bisogna superare l’approccio “artigianale” o “improvvisato” che troppo spesso caratterizza le politiche del turismo nel nostro Paese, e virare decisamente verso un sistematico livellamento verso l’alto dei servizi offerti. Se sono soprattutto i turisti stranieri a finanziare la cultura italiana, occorre strutturare il mercato su di loro, invogliarli a fermarsi più a lungo, a tornare, a evitare le vacanze “mordi e fuggi”, garantendo un sistema integrato di accoglienza e trasporti che spinga a visite approfondite. Togliamoci quella “puzza sotto il naso” di noi italiani che «abbiamo il patrimonio culturale più grande del mondo».
Questo supporre di avere già “la vittoria in tasca”, per usare un cliché calcistico visto il periodo, ci ha portato a perdere numerose occasioni, a non sfruttare compiutamente alcuni patrimoni («Altrimenti, Pompei continuerà a incassare 20 milioni di euro l’anno e gli Internazionali di tennis di Roma 23 milioni in una settimana», osseva Landi) e a lasciarne completamente dimenticati altri. Per prima cosa, occorre studiare il mercato. «Si potrebbe cominciare a misurare e contare i visitatori dei beni culturali e i partecipanti agli eventi anche per la loro geografia di provenienza e il loro profilo di spesa. Sarà forse un test difficile da digerire per molte sovrintendenze e amministrazioni locali, ma appare imprescindibile per il paese nel suo complesso, nel momento in cui deve decidere dove destinare risorse scarse, e dove invece generare fatturati, export e occupazione». Da qui dovrebbe discendere un’adeguata articolazione dell’offerta, declinata a seconda della tipologia di visitatori in arrivo. Non solo, se i turisti arrivano in Italia in cerca di cultura, siamo noi a doverli guidare nella scelta dei luoghi e nella loro fruizione. «Se molti vogliono visitare solo i beni culturali di maggior richiamo con modalità “mordi e fuggi”, sarà il caso di dissuaderli, vendendo loro un “pacchetto” che comprenda anche altri prodotti o servizi (informativi, di ristorazione, di alloggio, e altro), che procurano maggiore redditività per il territorio».
Anche questo è un modo di fare cultura, di preservare i luoghi educando le persone che li abiteranno per un breve periodo a farlo nel modo più interessante per loro e proficuo per il territorio, nel rispetto delle persone che ci vivono normalmente. Sembrano idee innovative, ma lo sono solo in Italia. E visto che le esperienze di altri Paesi hanno dimostrato che funzionano, forse sarebbe il caso di copiarle e applicarle anche da noi.