Mentre esiste un ampio consenso scientifico sul fatto che l’azione umana abbia contribuito in modo decisivo al riscaldamento dell’atmosfera, degli oceani e della terraferma, causando cambiamenti diffusi in tempi molto brevi, l’opinione pubblica è meno compatta. Almeno il 97% degli scienziati concorda sul fatto che l’umanità contribuisce al cambiamento climatico, ma non si può dire lo stesso della società in generale.
Diversi studi e sondaggi mostrano che il consenso sociale sul cambiamento climatico è più forte in Europa che negli Stati Uniti: in Europa infatti oltre il 50 per cento delle persone pensa che la lotta al cambiamento climatico sia una priorità, mentre solo il 12 per cento degli statunitensi è consapevole della quasi totale unanimità della comunità scientifica. Questo è il risultato, tra l’altro, della disinformazione, delle rappresentazioni dei media e dei pregiudizi cognitivi.
Come scrivono due ricercatori su The Conversation, presentare il cambiamento climatico come un dibattito legittimo mina il valore del consenso scientifico, spesso supportando il negazionismo climatico.
Non esiste una spiegazione semplice o univoca per l’atteggiamento incoerente dell’umanità nei confronti del cambiamento climatico. Si tratta di un problema molto complesso e solo riconoscendo tale complessità possiamo capirlo e cercare di cambiare i comportamenti delle persone.
Ci sono segnali più o meno confortanti sul fatto che le misure contro il cambiamento climatico siano adottate a livello globale. Tra le seconde da notare che, nonostante il rallentamento della crescita annuale, la domanda globale di combustibili fossili non ha raggiunto il picco, e gli investimenti in petrolio e gas continuano a essere ingenti.
Dall’altro lato, nel 2023 gli investimenti globali in energia pulita raggiungeranno una cifra stimata di 1.800 miliardi di dollari, sebbene concentrati in pochi Paesi: principalmente Cina, Unione Europea e Stati Uniti. Per ogni dollaro investito in idrocarburi, circa 1,8 dollari sono già destinati all’energia pulita, ma non tutti alle rinnovabili.
Uno dei problemi che ostacolano l’adozione su larga scala di misure efficaci è che i benefici della riduzione delle emissioni di CO2 sono globali e a lungo termine, mentre i costi associati sono spesso locali e immediati.
Non esiste dunque un’unica soluzione. Alcune richiedono infrastrutture o tecnologie per gestire le risorse in modo più efficiente, ma sempre più spesso implicano cambiamenti negli stili di vita.
Nell’economia classica, spiegano i ricercatori, l’idea di razionalità presuppone che, con informazioni e reddito adeguati, un individuo scelga sempre ciò che massimizza il suo benessere. Tuttavia, questa spiegazione è insufficiente: presuppone che le persone vivano solo per massimizzare la soddisfazione attraverso il consumo e ignora i sogni, le aspettative e gli obiettivi delle persone.
Il lavoro di Herbert Simon negli anni Cinquanta dimostra che le nostre decisioni si spiegano meglio con la cosiddetta razionalità limitata: la nostra capacità cognitiva, le informazioni e il tempo sono limitati, quindi semplifichiamo la realtà e ci adattiamo.
Da parte sua, Zygmunt Bauman ha concepito la “modernità liquida” come una transizione da una modernità solida a una forma più fluida e instabile, incapace di mantenere a lungo una serie di comportamenti e molto più incline al cambiamento.
Nella stessa ottica, Gilles Lipovetsky parla dell’individualismo e dell’edonismo di una cultura che privilegia l’immediato soddisfacimento dei desideri individuali, in contrapposizione all’impegno e al sacrificio al servizio dei principi etici.
Come conciliare queste idee che spiegano il modo in cui rispondiamo agli imperativi di sacrificio che, implicitamente o esplicitamente, compaiono nelle narrazioni dell’azione per il clima e della transizione giusta?
Forse riconoscere la complessità e cercare di capire come decidiamo è parte della risposta.
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