Il mercato dei crediti volontari di carbonio è stato creato ufficialmente con la firma del trattato di Kyoto, nel 1997. Da allora le entità (aziende, stati) che emettono anidride carbonica oltre certi livelli possono comprare crediti di carbonio (carbon credits) per compensare l’inquinamento prodotto. In pratica si possono finanziare progetti che portano benefici all’ambiente in cambio della libertà di inquinare (un po’ come quando le compagnie aeree fanno greenwashing chiedendoci di aggiungere 2 euro per piantare un certo numero di alberi e compensare, così sostengono, le emissioni prodotte dal volo).
Fin dagli inizi questo sistema, per quanto importante per i paesi in via di sviluppo, è stato criticato e sono stati espressi dubbi sulla sua efficacia. Ulteriori perplessità ha generato un comunicato stampa diffuso dall’agenzia che si occupa di valutare “l’eticità” dei crediti di carbonio presenti su questo mercato, che ha dichiarato che circa un terzo di essi non rispetta gli standard di credibilità che la stessa agenzia ha stabilito.
Come ha scritto Bloomberg, l’Integrity Council for the Voluntary Carbon Market (ICVCM) ha stabilito che il suo marchio Core Carbon Principles (CCP) non può essere utilizzato per i crediti di carbonio emessi secondo le metodologie esistenti per le energie rinnovabili. La decisione riguarda circa 236 milioni di crediti, pari al 32% del mercato.
Questo sviluppo, prosegue Bloomberg, ha il potenziale per dare un duro colpo a un mercato che si è già contratto di quasi un quarto rispetto al picco del 2022. Ma è anche l’ultimo segno degli sforzi in atto per ripulire la compensazione della CO2 emessa, una pratica che ha attirato regolarmente critiche per la presunta possibilità di fare greenwashing.
La valutazione è benvenuta e “invia un segnale per ripulire il mercato dai molti crediti di bassa qualità che sono ancora disponibili”, ha dichiarato Gilles Dufrasne, responsabile delle politiche di Carbon Market Watch, un’organizzazione no-profit.
Per avere il marchio CCP, un credito deve essere emesso da uno dei cinque programmi di compensazione che l’ICVCM ha vagliato e deve essere generato utilizzando una metodologia approvata. Tuttavia, anche questi progetti sono stati criticati da CarbonPlan, una società di ricerca no-profit specializzata in compensazioni, che sostiene che non offrono alcuna riduzione aggiuntiva delle emissioni rispetto a quelle che si sarebbero verificate senza i crediti.
Non sono certo i primi segnali di perdita di credibilità di questo mercato. Ferdinando Cotugno scriveva poco meno di un anno fa nella sua newsletter Areale di «una ricerca delle università di Cambridge e Amsterdam pubblicata […] su Science, che ha preso in analisi il valore di 89 milioni di crediti di carbonio scambiati sul mercato volontario, che provenivano da cinque paesi tropicali e forestali: Perù, Colombia, Cambogia, Tanzania e Repubblica Democratica del Congo. Risultato: solo il 6 per cento (5,4 milioni) dei crediti analizzati corrispondeva effettivamente a una riduzione delle emissioni di carbonio e a un’effettiva protezione forestale addizionale, il resto non aveva portato a una riduzione della perdita di foreste o addirittura era su spazi che l’avevano vista aumentare».
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