«Se del Terzo settore e delle sue tante sfaccettature sociali, economiche, civiche ancora poco si conosce, si scrive, ci si appassiona è perché non c’è a “sorreggerli” un pensiero forte, convincente, persuasivo, non ci sono idee suggestive, brillanti, “potenti come null’altro” perché, per dirla con Hugo, “il loro tempo è giunto”». Un articolo di Francesco Maggio sulla riforma del terzo settore, dal suo blog per il Post.

Un anno fa il governo Renzi varò la riforma del Terzo settore. Tra le tante riforme messe in cantiere dal presidente del Consiglio subito dopo il suo arrivo a Palazzo Chigi quella del nonprofit fu tra le primissime. «Voglio liberare», disse in sostanza premier, «il Terzo settore da tutti quegli ostacoli e vincoli di natura economica, giuridica, finanziaria che gli impediscono di diventare “primo”». Ossia di stare “davanti” a Stato e mercato in virtù di alcune sue peculiarità ben richiamate proprio in un documento governativo prontamente redatto allo scopo, dove si parla del nonprofit come di un settore «collocato tra lo Stato e il mercato, tra la finanza e l’etica, tra l’impresa e la cooperazione, tra l’economia e l’ecologia, che dà forma e sostanza ai principi costituzionali della solidarietà e sussidiarietà. E che alimenta quei beni relazionali che, soprattutto nei momenti di crisi, sostengono la coesione sociale e contrastano le tendenze verso la frammentazione e disgregazione del senso di appartenenza».

Il 10 luglio 2014, quindi, il Consiglio dei Ministri approvò un disegno di legge delega con cui chiedeva al Parlamento la delega, appunto, «ad adottare entro dodici mesi dall’entrata in vigore della legge di delega uno o più decreti legislativi recanti il riordino e la revisione organica della disciplina degli enti del Terzo settore». E ottimismo sulla brevità dei tempi necessari per portare a casa la riforma fu da più parti manifestato, a cominciare dal ministro del lavoro Poletti cui spetta, tramite le deleghe del sottosegretario Bobba, seguirne materialmente l’iter.

È passato un anno e la riforma si è arenata. Già il passaggio alla Camera è stato piuttosto complicato e l’esame del disegno di legge si è concluso solo il 9 aprile scorso. Ma una volta giunto in Senato è successo un po’ di tutto: sono cominciati i rinvii, la calendarizzazione del provvedimento è ripetutamente slittata, in un primo momento si pensava di concludere tutto entro luglio mentre adesso, se tutto va bene, se ne riparla a settembre. Per cui è molto difficile che prima della fine del 2016 il governo possa emanare i decreti legislativi di cui sopra.

Di questa battuta d’arresto non ha parlato praticamente nessuno. E quei pochi che l’hanno fatto hanno liquidato la faccenda come esclusivamente politica. Con il solito, prevedibile refrain: da una parte ci sono i politici cattivi che si disinteressano di temi così rilevanti; dall’altro, invece, ci sono i buoni del Terzo settore cui spetta sempre la sorte di Calimero che persino la madre, come accadeva nei vecchi spot della Mira Lanza, arrivava a non riconoscere.

Che la politica abbia molte responsabilità è risaputo ed è superfluo aggiungervi altro. Il Terzo settore, poi, è materia estremamente “fluida”, multidisciplinare, per conoscerla davvero bisogna studiarla a fondo, approfondirla e coglierne le contraddizioni (e, magari, proprio in queste, rintracciarne le principali potenzialità), bisogna conoscere le singole persone e le loro storie, bisogna distinguere tra fighetti che si atteggiano a cooperanti e cooperanti veri colmi di motivazioni, tra operatori del settore con animo francescano e operatori con sandali francescani e appetiti da pescecani, tra cooperatori sociali innovatori e trafficoni impenitenti stile “mafia capitale”, tra fondazioni serie ed efficienti e fondazioni usate come centri di potere, tra dirigenti al servizio del bene comune e dirigenti al servizio della propria carriera. Insomma, c’è di tutto e di più. Figuriamoci quindi se tanti dei nostri parlamentari abbiano voglia di mettersi con pazienza e umiltà a discernere per fare della riforma del Terzo settore una priorità. Né sprone in tal senso arriva dai giornalisti, la cui conoscenza del nonprofit il più delle volte è di una superficialità disarmante: la stragrande maggioranza credo non sappia distinguere nemmeno che differenza corre tra una cooperativa sociale di tipo A e una di tipo B mentre tutti o quasi sanno arzigogolare sui retroscena dei vari presunti patti dei nazareni.

Eppure tutto questo non basta a spiegare la sostanziale irrilevanza culturale del nonprofit in Italia, a dispetto del suo peso economico che ormai supera nettamente il 4 per cento del Prodotto interno lordo e dà lavoro a 700.000 persone. Se del Terzo settore e delle sue tante sfaccettature sociali, economiche, civiche ancora poco si conosce, si scrive, ci si appassiona è perché non c’è a “sorreggerli” un pensiero forte, convincente, persuasivo, non ci sono idee suggestive, brillanti, «potenti come null’altro» perché, per dirla con Hugo, «il loro tempo è giunto». No, nulla di simile. Mentre abbondano proclami pomposi, convegni autocelebrativi, parole d’ordine altisonanti logorate dall’uso improprio (per esempio: dono, passione per la realtà, cultura del fare, reciprocità, persino felicità), comunicati stampa sfornati anche solo per rendere noto al mondo intero che il presidente della tal associazione ha imparato a sollevare un sopracciglio sì e l’altro no, ecco mentre abbonda ogni sorta di “ammuina” latitano riflessioni di lungo respiro, prive di retorica e ideologia e ricche di sapienza. Soprattutto in campo economico.

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