Riccardo Gazzaniga è un poliziotto, e anche uno scrittore. Il suo romanzo d’esordio, A viso coperto (vincitore del premio “Italo Calvino” 2012), racconta ciò che Gazzaniga fa nella vita di tutti i giorni, quando abbandona la scrittura e veste la divisa: mantenere l’ordine pubblico. I protagonisti della narrazione raccontano le diverse sfaccettature di una questione molto complicata, ossia capire dove finisce l’uso della forza nei limiti consentiti dalla legge e dove inizia la violenza illegale; indagare il confine labile tra la necessità di fare il proprio dovere, salvaguardando la propria incolumità, e la scarica di adrenalina che il pericolo scatena. A corollario di questo tema, Gazzaniga si è espresso a proposito della detenzione di armi in un articolo pubblicato il 31 maggio su la Repubblica, che riportiamo di seguito.
Ricordo bene la prima volta che mi consegnarono la pistola d’ordinanza, alla fine del primo corso in Polizia. Aveva un suo strano fascino. Pesante, scura, un insieme di congegni perfetti, efficaci, micidiali. Era una Beretta, ovviamente, perché mezzo mondo usa pistole italiane, come la storica 92, nelle sue molteplici sigle e derivazioni. Armi che rappresentano un’eccellenza tutta nostra, perché non fanno quasi mai cilecca, risentono poco delle condizioni atmosferiche, non necessitano di grandi cure. I primi giorni la pulivo sempre, la mia Beretta. La osservavo con riverenza, perché per mesi ci avevano insegnato come maneggiarla e, soprattutto, quanto temerla. Gli istruttori ci avevano fatto il lavaggio del cervello: i controlli di sicurezza sempre doppi, per non sbagliare. L’arma mai rivolta contro qualcuno, nemmeno scarica, nemmeno per scherzo. Mai.
Più di un mese a fare operazioni “in bianco” senza caricatori e pallottole, prima di andare in poligono. E, una volta lì, concentrati, in silenzio, qualsiasi movimento con la pistola rivolta al bersaglio. Ricordo che quando la guardavo, mi trasmetteva un oscuro senso di forza, invulnerabilità. Qualsiasi cosa mi fosse capitata, qualsiasi situazione mi si fosse presentata davanti, io avevo una pistola. La tenevo con me in servizio e fuori, complicata da nascondere sotto i vestiti, impossibile da mettere in uno zaino per il rischio folle di perderla, farsela rubare, dimenticarla nel bagno di qualche bar. L’ho portata con me per qualche mese, giusto il tempo di rifletterci su.
Oggi la prendo solo per lavorare o in situazioni particolari, ma non vedo l’ora di riporla in una cassetta di sicurezza. Ma se fuori servizio vedi un reato grave e non hai la pistola dietro? Prendo il telefono -grande arma- chiamo i miei colleghi, che hanno armi e dotazioni adeguate a intervenire. Poi uso un’altra arma, la penna, e segno le informazioni utili. Basta una targa o un dato fisico, per arrivare a una persona, senza travestirsi da ispettore Callaghan. Ma se entri in banca e c’è una rapina a mano armata? La pistola non mi servirebbe a nulla. Non potrei mai ingaggiare una sparatoria al chiuso, con il rischio di coinvolgere persone inermi. E poi non avete idea di quanti rimbalzi può fare un proiettile prima di fermarsi da qualche parte.
Ma se vengono i ladri a casa? In qualsiasi abitazione puoi trovare oggetti per difenderti, senza utilizzare un’arma letale, magari di notte, magari al buio. Con il rischio di colpire un parente o uno disarmato o uno che scappa: per la legge italiana un uomo che fugge, anche armato, non rappresenta più una minaccia. Sparandogli, si risponde di omicidio. Ma potresti mirare alle gambe! Nelle gambe ci sono punti vitali e poi certe imprese le fanno solo gli attori. Già può essere complicato centrare una sagoma in qualsiasi punto a dieci metri di distanza, a quindici diventa arduo. Figurarsi colpire lo spazio ristretto di una gamba. Per non parlare di tiro in corsa o da una macchina, pura fantascienza. Insomma, nella grande maggioranza dei casi utilizzare una pistola contro una persona è l’anticamera di enormi problemi, errori, tragedie.
Una ricerca del 2007 stimava che in Italia 12 persone su 100 fossero in possesso di armi: molto meno che in Svizzera, Francia, Germania, Inghilterra. Enormemente meno che negli Stati Uniti, dove 88 persone su 100 possedevano un’arma da fuoco. L’inchiesta di Repubblica ci rappresenta il quadro di una «corsa all’armamento privato» che nasce da una percezione di insicurezza nella cittadinanza. Ma non è con i cittadini armati né con le ronde di cui si è parlato a vanvera per anni, che si garantisce sicurezza. La soluzione non è la corsa alle armi, ma agli investimenti da destinare alle forze dell’ordine e a chi, per dare sicurezza, lavora ogni giorno. Un lavoro che si fa poco con le pistole e molto con la prevenzione, il controllo del territorio, le attività investigative, l’impegno quotidiano nonostante i tagli di risorse. «Se nella prima scena del dramma, c’è un fucile appeso alla parete, questo dovrà sparare nell’ultimo atto» diceva Cechov. Per questo, nel mondo reale, fucili e pistole lasciamoli agli attori della sicurezza, lontano dagli spettatori.