Secondo una ricerca diffusa qualche giorno fa sul Sole 24 Ore, l’Italia è il più grande mercato europeo nel consumo di integratori alimentari, con un fatturato in crescita e che non sembra avere risentito della pandemia.
«Le imprese, dopo una buona tenuta nel 2020, hanno mostrato un’accelerazione nel 2021, grazie a una crescita diffusa di tutte le classi dimensionali e al traino delle imprese di più recente costituzione – spiega Giovanni Foresti, direzione Studi e ricerche di Intesa Sanpaolo –. […] L’Italia vanta importanti primati, tra cui quello di avere il più grande mercato degli integratori alimentari in Europa, oltre un quarto del suo totale, con attese di sfiorare i 5 miliardi di vendite nel 2025 – aggiunge Gabriele Barbaresco, responsabile area studi Mediobanca».
Di certo si tratta di un dato positivo in termini economici, visti i tempi e i tanti settori in difficoltà. Colpisce però che l’Italia rappresenti un mercato così florido a livello europeo per gli integratori, addirittura un quarto del totale.
Nell’archivio degli articoli del sito Quotidiano Sanità si ritrovano due contributi di segno opposto rispetto alla sicurezza e utilità di questi prodotti. Il primo, del 2011, riportava le conclusioni di un convegno organizzato da FederSalus, un’associazione di categoria (quindi molto di parte), e suggeriva che gli integratori potessero “contribuire a prevenire le malattie dell’invecchiamento e aumentare il benessere”. Di fronte allo scetticismo dell’Autorità europea per la sicurezza alimentare (Efsa) verso questi prodotti, la risposta di FederSalus non era proprio solidissima: «Le sue valutazioni – dice FederSalus – non possono basarsi sugli stessi criteri di evidence based medicine usati per i farmaci, ma dovrebbe fare riferimento ai dati scientifici disponibili e alle evidenze della tradizione d’uso, in assenza di strumenti idonei a stimare gli effetti fisiologici di un costituente alimentare sulla popolazione sana». Insomma: fidatevi e basta.
I problemi relativi al mercato degli integratori sono invece correttamente riportati nel secondo articolo, del 2018, dove si riportano le considerazioni contenute in un articolo del Journal of the American Medical Society (JAMA): «Queste specialità sono in vendita senza alcun obbligo di ricetta medica e senza obbligo di dimostrare la propria validità o sicurezza (ma solo […] l’assenza di contaminanti viventi, come virus e batteri o sostanze tossiche come metalli pesanti e impurezze chimiche». L’articolo poi conclude che «In definitiva, le analisi scientifiche sull’utilizzo degli integratori o dei supplementi alimentari mostrano che nella stragrande maggioranza dei casi il loro uso non solo è improprio – in quanto una buona dieta sarebbe molto più efficiente per “sanare” eventuali carenze di oligoelementi o vitamine – ma che spesso questi prodotti possono causare effetti indesiderati, sia per la concomitanza di patologie o di trattamenti farmacologici con cui possono interferire, sia per la potenziale tossicità che oligoelementi e vitamine possono esercitare sull’organismo qualora il loro livello di assunzione sia superiore rispetto alle necessità del momento».
Un altro articolo piuttosto datato, ma sempre valido, del divulgatore e docente di Scienze farmaceutiche Renato Bruni, contiene «una specie di richiamo al buon senso dei consumatori, spesso abbagliati come cervi nella notte da fanali pubblicitari e di promozione che vanno ben oltre il razionalmente sensato ed assai attivi nell’illuminare come curativi prodotti ed ingredienti che in realtà non rappresentano molto più di un bisogno indotto […]. La cosa può non piacere agli operatori del settore, ma molta della mercanzia proposta è più bisogno di vendita che necessità di curare/intervenire/mantenere in salute meglio di come non farebbe una buona alimentazione».
(Foto di Diana Polekhina su Unsplash)
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