Il rapporto di Antigone sullo stato di salute del sistema penitenziario italiano evidenzia diversi problemi, tra cui un tasso di recidiva molto alto. Ne ha scritto sulla Stampa Luigi Manconi.
Tra non molto saranno passati due secoli da quando Victor Hugo scrisse: «Se tutto, attorno a me, è monotono e incolore, dentro di me non c’è forse una tempesta, una lotta, una tragedia? La morte rende cattivi». (L’ultimo giorno di un condannato a morte, 1829). Cosa ci dice il rapporto presentato [il 28 aprile] dall’associazione Antigone, Le carceri viste da dentro, rispetto a quel processo di «incattivimento» determinato dalla vita coatta in un ambiente «monotono e incolore», dominato dalla tragedia?
I dati presentati dal XVIII rapporto di Antigone, che da un quarto di secolo visita le carceri italiane, ci raccontano che, certo, il nostro sistema penitenziario è molto mutato da quello francese dei primi dell’800: ma che, oggi come allora, qui come là, a dominare è la presenza della morte. Si considerino statistiche e numeri relativi ai decessi, agli atti di autolesionismo e ai suicidi, alle patologie (comprese le più acute), alla diffusione delle epidemie, al fenomeno suicidario tra i poliziotti penitenziari, all’altissimo tasso di tissicomanie e di overdose, alla frequente presenza di pazienti psichici. E si consideri quella «tragedia» rappresentata dalla circolazione di una pulsione di violenza, che si manifesta, fatalmente, nell’aggressività latente, nell’ostilità sorda, nei rapporti di autorità che precipitano in prevaricazione e prepotenza, nei numerosissimi casi di trattamenti inumani e degradanti (attualmente sono una ventina quelli sottoposti a indagine giudiziaria o a processo) attribuiti a membri della Polizia penitenziaria. Il rapporto di Antigone parla di tutto questo e ha, in primo luogo, la funzione liberatoria di contestare alla radice alcuni stereotipi dominanti. Il più diffuso tra questi si esprime così: ma in Italia nessuno finisce mai in carcere. E, invece, le cifre dicono che mentre in Francia e in Inghilterra si entra in carcere a seguito di una condanna, rispettivamente, nel 30 e nel 36% dei casi, in Italia siamo al 55%. E chi non ha accesso alle alternative alla detenzione, chi ha conosciuto solo il carcere, finisce per tornarci. E non solo una, ma anche cinque volte (al 31 dicembre 2021, dei detenuti presenti in Italia, solo il 38% era alla prima reclusione. Il 62% c’era già stato almeno un’altra volta. Il 18% ben 5 o più volte).
Altro stereotipo che il rapporto ribalta è quello che considera le nostre città sempre meno sicure e sempre più «ostaggio della criminalità» (specialmente di quella «di strada»). Ma quello che emerge è una realtà in cui, da trent’anni a questa parte, tutti i reati, compresi quelli più suscettibili di produrre allarme sociale perché più prossimi ai cittadini, sono in drastica diminuzione. Quindi, osserva Antigone, «diminuiscono i reati in generale, diminuiscono i detenuti in termini assoluti ma aumenta il numero medio di reati per persona. Ciò è indice dell’incremento di quello stesso tasso di recidiva», vera maledizione del sistema della giustizia italiana.
Noi ci siamo
Quando è nata Avis Legnano i film erano muti, l’Italia era una monarchia e avere una radio voleva dire essere all’avanguardia. Da allora il mondo è cambiato, ma noi ci siamo sempre.