Il recente caso del neonato morto all’ospedale Pertini di Roma, probabilmente perché soffocato dalla stessa madre che, esausta per il parto, si è addormentata mentre lo allattava, ha suscitato grandi polemiche per le condizioni dei reparti di ostetricia.

Tra i maggiori indiziati è finita la pratica del rooming in, ossia un protocollo (promosso anche dall’Oms) che prevede che il neonato resti in stanza con la madre 24 ore al giorno subito il parto, e che non si faccia ricorso alla nursery se non in casi eccezionali.

Come si evince da molte esperienze simili (anche dagli esiti meno tragici) raccontate da donne che hanno vissuto disagi e sofferenze negli ospedali a seguito del parto, il problema non è tanto il rooming in in sé, quanto il fatto che sia applicato in maniera coercitiva e, più in generale, che spesso sia negato ogni tipo di assistenza, anche a fronte di ripetute richieste di aiuto.

Come ha spiegato Ivana Barberini sul sito della casa editrice Uppa, «Il rooming in va vissuto dalla donna come un’opportunità, non come un’imposizione, e deve essere proposto senza regole rigide, lasciando alla mamma la libertà di scegliere se e per quanto tempo adottarlo. In questo svolge un ruolo importante il personale sanitario, che si prende cura del bimbo o della bimba quando la mamma non se la sente, sostenendo e incoraggiando quest’ultima nei momenti di contatto con il neonato».

Il rooming in peraltro non c’entra – e non va confuso – con il co-sleeping, che prevede che madre e figlio dormano nello stesso letto. Questa pratica è infatti sconsigliata dagli stessi medici, come specificato in una nota congiunta firmata da diverse società scientifiche dell’area perinatale: «La condivisione del letto fra una madre vigile ed un neonato sano, messo in una posizione di sicurezza, è un fatto naturale, pratico, indiscutibile. Le società scientifiche però attualmente raccomandano di evitare la condizione del co-sleeping, giudicata non sicura, suggerendo di riporre il bambino a fine poppata nella propria culla, in particolare quando non siano presenti altri caregiver (familiari o operatori sanitari). Questa prudenza è giustificata ben oltre la permanenza di mamma e bambino nel Punto Nascita e interessa tutti i primi 6 mesi di vita».

Un altro dei problemi legati a questa tragica storia è quello delle procedure che in molte strutture ancora limitano l’accesso dei padri alla stanza in cui risiedono madre e figlio, in osservanza a misure di precauzione per la pandemia di Covid-19 che a questo punto non hanno più molta ragione d’essere. «Dal momento che l’assistenza alla diade madre-bambino va centrata sulla nuova famiglia – si legge in un altro comunicato delle società che si occupano di questi aspetti –, è prioritario che entrambi i genitori (se COVID-19 vaccinati, guariti o negativi), nel rispetto delle norme di prevenzione del contagio, possano stare col proprio figlio nell’interesse del minore, anche per consentire l’attivazione dei processi di attaccamento e per l’avvio dell’allattamento. Premessa per questa vicinanza è la presenza del padre del neonato/partner in ospedale. La valutazione del rapporto benefici/rischi supporta senza incertezze questa scelta».

Il fatto in questione sembra essere legato più a un generale problema di violenza ostetrica che all’applicazione di questo o quell’approccio scientifico. «Col termine violenza ostetrica – spiega il Post – si fa riferimento a un insieme di comportamenti delle strutture e dei professionisti che si occupano di salute riproduttiva e sessuale delle donne, e che possono essere anche molto diversi tra loro: come l’eccesso di interventi medici non necessari o senza consenso, e la generale mancanza di rispetto per la salute mentale e l’autodeterminazione delle donne […] Quando si parla di violenza ostetrica non ci si riferisce a una violenza intenzionale a opera di alcuni specifici professionisti, ma a una forma di violenza “sistemica” e quindi radicata nelle procedure e nella cultura ospedaliere da sempre legittimata collettivamente. Molte donne tra quelle che ne hanno avuto esperienza raccontano di non essersi rese conto di essere state vittime di violenza, o di averlo realizzato solo dopo, a causa del senso di colpa, di inadeguatezza o di vergogna che erano stati loro indotti. Questi due elementi rendono la violenza ostetrica particolarmente difficile da individuare ed estirpare».

(Foto di Christian Bowen su Unsplash)

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