L’incidente che ha causato la morte di alcune studentesse, di ritorno da una gita durante il loro soggiorno in Spagna nell’ambito del programma Erasmus, ha colpito la sensibilità di tutti. La loro giovane età, il fatto che tra le vittime ci fossero anche delle ragazze italiane, il fatto che si trattasse di un periodo all’estero per questioni di studio, hanno reso ancora più tragico l’evento. Nel modo peggiore che si possa immaginare, questo ha portato l’attenzione dei media verso il programma che, dal suo avvio nel 1987, ha permesso a 3,3 milioni di studenti (e 470mila docenti) di viaggiare per tutta l’Europa, facendo esperienze di studio all’estero. Da alcuni anni poi, si sono aperte nuove possibilità per studenti provenienti da altri continenti, grazie al progetto Erasmus Mundus, ma anche per atleti, tirocinanti e lavoratori, grazie a Erasmus plus: «Il nuovo programma – scrive Repubblica.it –, finalizzato alla promozione dell’occupazione, offrirà entro il 2020 a 4 milioni di persone l’opportunità di studiare formarsi, insegnare o fare opera di volontariato in tutta Europa. Il bilancio previsto è di oltre 14 miliardi di euro fino al 2020. Soltanto nel primo anno di “attività”, Erasmus plus ha coinvolto 650mila europei».

Per quanto riguarda il programma rivolto agli studenti europei, un articolo pubblicato su Lavoce.info riporta una serie di dati relativi agli ultimi anni accademici, che danno l’idea della popolarità del progetto: «Nell’anno accademico 2013-2014 hanno partecipato al programma 34 paesi (i 28 membri dell’Ue, più Islanda, Liechtenstein, Norvegia, Svizzera, Turchia e Macedonia). Nello stesso anno il budget impiegato ha raggiunto i 580 milioni di euro permettendo a 272mila studenti di trascorrere un periodo di studio o lavoro all’estero. L’Italia è tra i paesi europei con il maggior numero di studenti in uscita ed in entrata: quarto posto (dopo Spagna, Germania e Francia) per numero di studenti in partenza (anno 2013-14) e quinto posto (dopo Spagna, Germania, Francia e Regno Unito) per numero di studenti in arrivo. In ogni caso il sistema universitario italiano utilizza ancora poco questo strumento poiché nell’anno accademico 2012-13 gli studenti universitari italiani in Erasmus costituivano il 7 per cento dei laureati italiani nel medesimo anno».

Pur non volendo portare avanti il solito luogo comune dell’“italiano mammone”, il fatto che il ricorso al programma sia ancora limitato deve fare riflettere sulla poca predisposizione degli studenti italiani (ragionando in termini generali) a cambiare sede per un periodo. Difficile infatti misurare l’impatto del programma in termini di cambiamenti culturali che esso porta nei giovani che partecipano, rispetto a quelli che non lo fanno. Questo perché, come spiegano Maria De Paola e Davide Infante su Lavoce.info, spesso è proprio il diverso grado di “apertura mentale” a spingere i giovani a presentare o meno la domanda di partecipazione. In sostanza: chi ha curiosità verso il mondo va a scoprirlo – così come fece Erasmo da Rotterdam, filosofo olandese che nel XV secolo completò la propria formazione viaggiando per l’Europa – chi non ce l’ha (o ha come priorità quella di laurearsi il prima possibile, magari per questioni di necessità economiche) scarta l’ipotesi in partenza. «Gli studenti – si legge nell’articolo – che decidono di studiare all’estero sono per molti aspetti diversi da quelli che completano l’intero percorso universitario nel paese d’origine. Non solo hanno buoni risultati academici, ma sono anche più curiosi e sicuri di sé e hanno maggiore capacità decisionale (The Erasmus Impact Study: Regional Analysis – Europa.eu). Le diverse caratteristiche di questi studenti ne possono favorire la mobilità e il successo sul mercato del lavoro, nonché essere alla base di una maggiore identificazione con l’Europa. È evidente quindi che si può concludere ben poco confrontando i risultati (condizione occupazionale e salariale) o le opinioni degli studenti che hanno partecipato al programma con quelli degli studenti che non hanno partecipato affatto (neanche presentando la domanda)».

Ciò che invece si può dire con certezza è che chi partecipa all’Erasmus ha maggiori probabilità (il 15 per cento in più) di lavorare all’estero dopo gli studi: «De Pietro (2015) mostra che aver studiato all’estero aumenta la probabilità di occupazione a tre anni dalla laurea dei giovani italiani di circa 24 punti percentuali e che l’effetto è trainato dagli studenti che provengono da un background familiare svantaggiato. L’evidenza esistente, anche se scarsa, mostra quindi risultati incoraggianti che fanno ritenere che investire nella mobilità degli studenti possa rappresentare una buona strategia per accrescere l’occupabilità dei laureati, rimettere in moto su scala europea l’ascensore sociale e rafforzare il senso della cittadinanza europea tra le giovani generazioni».

Fonte foto: flick