Domenica 17 aprile i cittadini italiani sono chiamati a votare per un referendum sull’estrazione di petrolio e gas naturale nei mari che circondano la nostra penisola. Comitati per il e per il no hanno fatto una grande confusione sui contenuti del quesito, dunque resta una domanda: per cosa si vota? Partiamo dai contenuti reali della consultazione. Come spiegato su vari siti d’informazione, l’oggetto del voto è una questione prettamente tecnica, ossia la scelta (per chi vota sì) di interrompere le estrazioni di petrolio e gas naturale all’interno delle 12 miglia marine dalla costa al termine delle attuali concessioni, oppure (per chi vota no, o se non si dovesse raggiungere il quorum) lasciare che le attuali piattaforme continuino a estrarre risorse naturali fino a esaurimento dei giacimenti.

Per chiarezza, aggiungiamo anche per cosa non si vota: 1) sulla possibilità di estrarre idrocarburi oltre le 12 miglia marine dalla costa: questa è libera (e continuerà a esserlo) e avviene su concessione da parte dello Stato; 2) sulla possibilità di estrarre sulla terraferma; 3) sulla possibilità di rilasciare nuove concessioni per l’estrazione entro le 12 miglia, che è già vietata. Dunque, come si può già intuire, l’appellativo di referendum no-triv è di per sé improprio e strumentale, visto che il quesito non ha niente a che fare con le trivelle: queste infatti, una volta finito lo scavo, hanno concluso il proprio compito, mentre dell’estrazione si occuperà la piattaforma. Ma gli scavi entro le 12 miglia sono già vietati e oltre questo limite continueranno a essere fatti, dunque, che vinca il sì oppure il no, non ci saranno conseguenze sull’uso delle trivelle.

Altra questione è capire quali siano le ricadute della vittoria di uno o l’altro dei due schieramenti. Per fare questa valutazione, occorre sapere che la maggior parte dell’energia consumata in Italia è prodotta all’interno del Paese, ma sfruttando in gran parte materie prime acquistate all’estero. Questo perché il nostro sottosuolo è povero di idrocarburi, dunque la maggior parte devono essere importati. «Nel 2014 – scrive il Post – la produzione lorda di energia elettrica in Italia è stata di quasi 280 mila GWh (“gigawattora”). Poco più della metà del totale, circa 150 mila GWh, è stato generato dalle centrali termoelettriche che bruciano combustibili fossili. Due terzi di questa energia è ottenuta bruciando gas naturale, poco meno di un terzo è ottenuto dal carbone e il restante dall’olio combustibile. Quasi tutti questi combustibili fossili devono essere importati, perché il sottosuolo del nostro paese è molto povero di materie prime energetiche».

L’estrazione di petrolio e gas naturale al di qua delle 12 miglia non ha dunque un forte impatto sulla produzione nazionale, anche perché la maggior parte delle risorse viene estratta oltre quel limite territoriale: «Quattro quinti di tutto il gas che viene prodotto in Italia (e che soddisfa circa il 10 per cento del fabbisogno nazionale) viene estratto dal mare – da un altro articolo del Post –, così come un quarto di tutto il petrolio estratto in Italia. Entro le 12 miglia marine si estrae attualmente circa il 17,6 per cento i tutto il gas estratto in Italia e il 9,1 per cento di tutto il petrolio». Stiamo parlando di una piccola percentuale (le risorse estratte entro le 12 miglia) di una piccola percentuale (le risorse estratte in Italia rispetto a quelle importate).

Obiettivamente, l’area di intervento del referendum è molto circoscritta. Detto questo, resta una serie di considerazioni di stampo più politico, che rendono comunque importante il risultato di questa consultazione. Da una parte c’è chi considera il voto come un giudizio nei confronti del governo, e considera una vittoria del sì come segnale all’esecutivo sulla mancata fiducia popolare. Dall’altra c’è chi porta all’attenzione varie altre questioni, tra cui il fatto che votare sì equivalga ad affermare l’importanza di una transizione verso fonti rinnovabili, per ridurre l’inquinamento e l’impatto ambientale della produzione di energia.

Va detto che l’Italia è uno dei Paesi in cui l’energia prodotta da fonti rinnovabili sta crescendo col più alto tasso in Europa: «Circa il 37 per cento del totale, 120 mila GWh, proviene da fonti rinnovabili (trovate qui tutti i dati). La metà del totale, quasi 60 mila GWh, proviene dalla produzione idroelettrica. L’energia fotovoltaica è al secondo posto tra le rinnovabili più utilizzate, con circa 22 mila GWh generati nel 2014, seguita dalla combustione delle biomasse, che ha generato 18,7 GWh, dall’eolica, con 15,2 GWh e dal geotermico con 5,9 Gwh. Nella classifica dei paesi europei che hanno la quota più alta di energia rinnovabile prodotta in maniera rinnovabile sul totale dei consumi, l’Italia è al 12esimo posto ma è davanti a tutti i grandi paesi europei: Germania, Francia e Regno Unito. La Spagna è l’unico paese di dimensioni comparabili a utilizzare più rinnovabili di noi». L’aumento di produzione da fonti rinnovabili continuerà ad aumentare, e a essere importante nel mix energetico italiano, sia che si chiudano anticipatamente i giacimenti interessati dal referendum, sia che li si lascino in attività fino a esaurimento.

Chi spinge per una sostituzione progressiva delle fonti rinnovabili a scapito di quelle fossili omette di parlare dei problemi che queste ancora comportano, su tutte l’intermittenza e lo stoccaggio. Altre questioni, come gli eventuali danni ambientali o al turismo che deriverebbero dal fatto di mantenere in attività le piattaforme, non sembrano supportate da prove credibili. L’Emilia Romagna, per esempio, ha la più alta concentrazione di piattaforme, eppure le sue coste sono prese d’assalto dai turisti ogni estate. Sulle questioni ambientali, ci chiediamo come mai delle strutture che stanno lì (in certi casi) dagli anni ’70 siano diventate improvvisamente fonte di preoccupazione.

Tra le cose che si potrebbero chiedere al governo c’è l’impegno ad alzare il costo delle concessioni, oggi tra i più bassi in Europa, utilizzando i proventi per finanziare la ricerca sull’accumulo energetico, «o per creare una rete di distributori elettrici capillare e alla portata di tutti, o per incentivare la trasformazione degli impianti termici dal gas alle pompe di calore elettriche». Ma siamo sicuri che un referendum, che costa circa 300 milioni di euro, sia lo strumento migliore per fare affrontare questi temi?

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