
«Quando scelgo di raccontare una storia è per evitare la tremenda umiliazione che subirei non scrivendo. Scrivere, in questi casi, è un atto di tutela della mia dignità personale». È una Arundhati Roy tremendamente composta e posata, come sempre, a pronunciare parole che rispecchiano la grande onestà intellettuale del suo lavoro. La cornice è il palco del Teatro comunale di Ferrara, in cui domenica scorsa si è svolto l’incontro conclusivo del quinto festival di Internazionale, settimanale che traduce e pubblica i migliori articoli dei giornali di tutto il mondo. A moderare il dibattito il direttore di Radio 3 Marino Sinibaldi. L’intera conferenza, dal titolo “Cronache da questo mondo”, ha percorso un doppio binario: da un lato la riflessione sulla narrazione, sul perché e quando si sceglie di raccontare una determinata storia; parallelamente, l’occhio è rimasto puntato sull’attualità e sulla sua interpretazione.
L’autrice de “Il dio delle piccole cose”, dopo aver dato alle stampe il libro che l’ha fatta conoscere al mondo, ha intrapreso una strada poco prevedibile, e, come si direbbe in termini economici, poco conveniente. Si è infatti gettata nell’attualità del proprio Paese, scrivendo articoli e libri in cui porta a conoscenza del mondo il prezzo che stanno pagando gli indiani per sostenere i ritmi di sviluppo della propria economia, secondo solo alla Cina. Il tutto con grande fastidio da parte degli accusati. Il nemico individuato è quello interno, ossia il governo indiano, che sta svendendo alle multinazionali i territori della fascia centrale del Paese, composti principalmente da foreste e risorse minerarie. Quelle terre sono abitate da popolazioni che vivono di allevamento e agricoltura, in villaggi che poveri non sono, almeno finché la logica di sfruttamento del liberismo sfrenato non arriva a turbarne gli equilibri. Ed è proprio ciò che sta cercando di fare il governo, etichettando tutti i resistenti sotto il nome di “maoisti” (ma la maggior parte di quelle persone non ha mai visto il mondo al di fuori del proprio villaggio, come può ispirarsi a un modello così diverso?), dipingendoli come pericolosi terroristi, distruggendo le loro case e stuprando le loro donne. Intere popolazioni sono state trasformate, agli occhi dell’opinione pubblica, da gruppi di resistenza armata mossi dalla lotta alla povertà, a violenti eserciti che si scagliano ideologicamente contro le ragioni del Capitale. «Come fai -si chiede la scrittrice- a fare il ghandiano quando nessuna tv, nessuna opinione pubblica conosce la tua lotta, e t’incendiamo il villaggio?».
Ma non c’era solo la Roy sul palco. Al suo fianco il collega e amico John Berger, scrittore, pittore, critico d’arte, e soprattutto, come ama definirsi, storyteller, raccontatore di storie. Da lui è arrivato un interessante ritratto dei nuovi tiranni, tratto dal suo “Bento’s sketchbook”, non ancora disponibile in italiano, che ha letto e interpretato in un reading a due voci con Arundhati Roy (e traduzione di un simpatico quanto reticente Sinibaldi). «Studiate i volti dei nuovi tiranni. […] Le loro facce da profittatori hanno molti tratti in comune, tale conformità dipende in parte dalle circostanze – possiedono talenti analoghi e vivono secondo routine simili – e in parte è una scelta di stile. Hanno età diverse, ma lo stile è quello di uomini che vanno verso i cinquanta. Sono vestiti in modo impeccabile e il loro abbigliamento è rassicurante come la sagoma dei furgoni porta valori. […] Hanno occhi piccoli, pronti, che esaminano tutto ma non contemplano nulla; orecchie capienti come una banca dati ma incapaci di ascoltare. […] La piena fiducia in se stessi che traspare dai loro volti è pari alla loro ignoranza che è anch’essa evidente. […] I profittatori non sanno niente di niente, […] conoscono bene solo le loro impressioni sui loro racket […]. Il loro reiterato articolo di fede è “Non c’è alternativa”». «But that is bullshit», si è lasciata sfuggire la Roy, uscendo dal testo. Ma né Sinibaldi, né la traduttrice hanno dovuto tradurre, l’applauso stava già scrosciando.