Dopo oltre un anno dall’inizio della pandemia, il capo della Protezione civile Fabrizio Curcio ha detto che «Siamo in guerra». Il contesto era la presentazione delle nuove misure che si stanno mettendo in campo in Liguria per la vaccinazione di massa, con l’inaugurazione di uno spazio dedicato grande 1.300 metri quadrati. A oltre un anno dall’inizio della pandemia, la narrazione è ancora ferma lì, alla guerra. Non vogliamo fare i disfattisti e sostenere che non si stia muovendo nulla. I problemi restano, ma i tentativi di risolverli non mancano, e confidiamo nel fatto che le cose possano progressivamente migliorare. Riprendiamo nuovamente, come fatto in un post recente, la riflessione di Alessandro Baricco sul tipo di “intelligenza” a cui stiamo affidando la soluzione di un problema totalmente nuovo: «Esiste un’altra intelligenza, più adatta alle sfide che ci aspettano? Esiste un’intelligenza non novecentesca? La stiamo formando da qualche parte, in qualche scuola, in qualche azienda, in qualche centro sociale? Abbiamo ragione di pretendere che emerga in superficie nella gestione del mondo, e di pretenderlo con una rabbia pericolosa?». Il governo Draghi, nel suo affidarsi a un generale per la gestione straordinaria, e a un capo della Protezione civile che si esprime in questi termini, si è in qualche modo presentato come il più “novecentesco” dei governi possibili. E le parole usate dai suoi rappresentanti ne sono la prova. Ne usciremo, confidiamo (e ci auguriamo) che il nuovo esecutivo faccia un buon lavoro, con l’aiuto di tutte le forze politiche. Ma non sarà l’occasione per fare il “salto in avanti” culturale di cui l’Italia avrebbe tanto bisogno.
La testimonianza di questo emerge in un paradosso individuato da Edoardo Sanguinetti su Scienza in Rete: è il divario tra la qualità della ricerca scientifica italiana relativa al COVID-19 e il disastroso bilancio sanitario registrato nel paese. Da un lato, riporta Sanguinetti, «stando agli analisti di Quacquarelli-Symonds, che compilano il famosissimo QS University Ranking, la ricerca italiana su COVID-19 è al quinto posto mondiale come impatto, subito dietro ai titani anglosassoni. Naturalmente il fatto di essere stati il primo paese occidentale travolto da Covid potrà parzialmente spiegare questo exploit, ma certamente si tratta di un riconoscimento alla dedizione e al talento degli scienziati che operano nel nostro paese». Dall’altro lato le statistiche, che finora hanno fatto registrare oltre 100 mila decessi dovuti al coronavirus. «Non solo –aggiunge Sanguinetti– circa due terzi dei decessi sono avvenuti dopo ottobre 2020, ossia quando gran parte della ricerca eccellente italiana su COVID-19 era già pubblicata. Come è possibile che un paese che ha prodotto ricerca di primissimo piano abbia fallito così miseramente nella gestione pratica della pandemia?».
Come scrivevamo tempo fa, la crisi che stiamo affrontando è innanzitutto un fallimento di governance, prima ancora che sanitario. A monte delle scelte politiche, Sanguinetti propone però una riflessione molto interessante che ha molto a che vedere con quella visione “novecentesca” (che affonda le radici ancora più indietro) di cui si parlava, ossia l’incapacità di mettere in sinergia le diverse discipline. «Mentre l’attivismo degli scienziati è stato un tratto comune [tra diversi Paesi], l’organizzazione della comunicazione tra scienziati e governi mostra differenze fondamentali. Paesi come la Francia e la Gran Bretagna hanno raccolto [nei loro comitati tecnico-scientifici] team interdisciplinari che includevano fisici, matematici, sociologi, data scientist, oltre a medici e virologi. Inoltre, in molti paesi vige la figura del consigliere scientifico, tipicamente scienziati di primo piano che vengono regolarmente consultati (anche se non sempre ascoltati). Anche grazie a queste strutture, altri paesi hanno “mobilitato” i loro scienziati, non solo i medici e i virologi […]. In Italia no. In Italia la pandemia è stata trattata come un problema esclusivamente medico: il nostro comitato tecnico-scientifico è composto per la quasi totalità da medici (va notato che il 16 marzo il governo ha fatto entrare nel CTS due membri con competenze tecnico/matematiche, di cui uno però – l’ingegnere Alberto Gerli – già dimissionario a poche ore dalla nomina), e tutta l’azione di supporto scientifico è intestata all’Istituto Superiore di Sanità, che guarda gelosamente i dati su cui si basano le analisi e raccomandazioni fornite ai decisori». Su Gerli, Sanguinetti è fin troppo generoso nell’attribuirgli competenze “tecnico/matematiche”, visto che le sue uscite sulla pandemia non hanno messo in luce particolari doti (e anzi le sue previsioni si sono sempre dimostrate sbagliate).
È in questa rigidità, in questo ragionare per compartimenti stagni, che si mostra l’inattualità del pensiero dominante, a cui pochi di noi riescono a sottrarsi. Certo non sono mancate le menti che invece hanno saputo mettere i loro saperi al servizio della pandemia, e spesso scienziati con competenze diverse hanno contribuito a rendere più comprensibile questa pandemia a lettori di giornali, ascoltatori radiofonici o frequentatori di social network. Diverso però sarebbe stato coinvolgere alcuni di loro (e altri meno esposti) in un ruolo (almeno) consultivo rispetto alla gestione diretta. Interlocutori che aiutassero i nostri governanti novecenteschi a fare un viaggio nel futuro, per lo meno fino al 2021.
(Foto di Terry Vlisidis su Unsplash)
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