«Un primo passo importante, anche se solo un primo passo». Così il presidente di Amnesty International Italia, Antonio Marchesi, ha definito in un comunicato l’approvazione in Senato del disegno di legge che introduce il reato di tortura nell’ordinamento italiano, avvenuta il 5 marzo. «Il testo approvato dal Senato non è perfetto – meglio sarebbe stato attenersi alla definizione internazionale di tortura – ma è assai più accettabile ora che è stato rimosso il requisito della necessaria reiterazione del comportamento. Chiediamo alla Camera di procedere in tempi brevi alla calendarizzazione, discussione e approvazione della proposta e che si metta così fine all’imbarazzante ritardo (di ben 25 anni) con cui l’Italia onora il suo impegno internazionale di contrastare seriamente la pratica della tortura». Il segnale è importante ed è un bene che la politica italiana abbia finalmente deciso che è giunto il momento di chiamare il reato di tortura col proprio nome.
A differenza di altri Paesi però il reato in Italia sarà di tipo comune, cioè potrà esserne accusato chiunque, mentre il fatto che sia perpetrato da funzionari pubblici costituirà un’aggravante. Non è un particolare da poco, perché in effetti la Convenzione di New York del 1984, a cui si ispira la legge (con trent’anni di ritardo) parla invece esplicitamente di reati commessi da forze dell’ordine: «Il termine “tortura” indica qualsiasi atto mediante il quale sono intenzionalmente inflitti ad una persona dolore o sofferenze forti, fisiche o mentali, al fine segnatamente di ottenere da essa o da una terza persona informazioni o confessioni, di punirla per un atto che essa o una terza persona ha commesso o è sospettata aver commesso, di intimorirla o di far pressione su di lei o di intimorire o di far pressione su una terza persona, o per qualsiasi altro motivo fondato su qualsiasi forma di discriminazione, qualora tale dolore o sofferenze siano inflitte da un agente della funzione pubblica o da ogni altra persona che agisca a titolo ufficiale, o su sua istigazione, o con il suo consenso espresso o tacito».
Sarebbe bastato riprendere in maniera letterale le parole della Convenzione, ma si è voluto mediare con altre posizioni che volevano tutelare le vittime di torture da parte di organizzazioni criminali, senza creare un caso giuridico specifico per le forze dell’ordine. Secondo Luigi Manconi, presidente della Commissione sui diritti umani del Senato, il disegno di legge esce «devitalizzato» da questa modifica. «La mia critica – ha spiegato – non si limita ad alcune questioni, pur rilevanti, ma all’impianto ed all’ispirazione complessiva del disegno di legge a mio avviso depotenziato in misura rilevante nel suo significato, come la prospettiva e la finalità di questa normativa, a partire dalla formulazione che prevede la reiterazione degli atti di violenza, cioè il fatto che debbano essere ripetuti perché si dia la fattispecie della tortura».
Oltre a specificare il tipo di reato e le pene relative, altri articoli della legge prevedono una serie di garanzie per la vittima, anche nel caso di stranieri: «L’articolo 2 prevede che le informazioni ottenute tramite tortura non siano utilizzabili. L’articolo 3 non ammette l’espulsione di uno straniero che rischi di essere sottoposto a tortura. In base all’articolo 4 non può essere riconosciuta l’immunità diplomatica a cittadini stranieri condannati per reato di tortura». Aspettiamo ora che il testo passi alla Camera e ci auguriamo che da Montecitorio arrivi una rapida approvazione (o eventualmente qualche miglioria).