Ai profughi ucraini è garantita una procedura di protezione speciale accelerata, ma i sistemi di accoglienza esistenti hanno centinaia di migliaia di richieste in sospeso che hanno fatto accumulare, in media, oltre 15 mesi di ritardo. Uno studio della fondazione spagnola Civio per lo European Data Journalism Network.
“Il collasso è brutale”: così Virginia Álvarez, portavoce di Amnesty International in Spagna ed esperta di immigrazione, definisce la situazione dei sistemi di accoglienza in Europa ora che si preparano a ricevere milioni di rifugiati ucraini. Un collasso che si può tradurre in cifre: alla fine del 2021 i Paesi dell’Unione Europea avevano accumulato nel complesso quasi 760.000 richieste di asilo in attesa di una risposta sull’esito della procedura.
Tante? Se consideriamo che in totale, a dicembre, sono state ricevute poco più di 60.000 richieste, sicuramente non sono poche. In altre parole, questi quasi 760.000 procedimenti in sospeso equivalgono alle domande ricevute negli ultimi 15 mesi. Ora, questo stesso sistema di asilo deve accogliere buona parte dei quasi 4 milioni di rifugiati che secondo i dati delle Nazioni Unite hanno lasciato l’Ucraina dopo lo scoppio della guerra con la Russia lo scorso febbraio.
“Non c’è mai stata la minima volontà da parte di nessun Paese europeo di assolvere ai propri obblighi internazionali in materia di accoglienza dei rifugiati”, aggiunge Álvarez. Ma anche nell’ambito delle “cattive pratiche” si scorgono delle differenze. Delle 758.920 richieste di asilo in attesa di risposta al 31 dicembre 2021, oltre 500.000 si concentravano in tre Paesi: Germania (più di 264.000), Francia (più di 145.000) e Spagna (più di 100.000). È pur vero che questi sono i tre Paesi che ricevono più domande, ma l’intasamento è comunque considerevole: in Germania sono necessari oltre 19 mesi per conoscere l’esito di una domanda d’asilo, in Spagna oltre 17 e in Francia quasi 15.
L’Irlanda, con oltre 29 mesi di attesa, insieme a Cipro, Malta e Finlandia hanno sistemi ancora più intasati, e insieme a Grecia, Lussemburgo, Belgio e Svezia superano tutti la soglia di un anno di attesa.
“Sono così pochi [i funzionari] e siamo così tanti ad arrivare”. A parlare è Carmen Caraballo, una rifugiata venezuelana che è arrivata in Spagna nel giugno del 2018 e ha ottenuto l’asilo solo un anno e mezzo dopo. In base alla sua esperienza, la mancanza di personale spiega i ritardi negli appuntamenti e nell’esame delle richieste come la sua. “Devi fare lunghe file, come quelle per il cibo, solo che le fai per i documenti”, spiega Carmen, che ha avuto a che fare anche con il sistema di accoglienza spagnolo. Nell’attesa della tanto agognata tessera rossa – così viene chiamato il permesso di lavoro in Spagna – molti si vedono costretti a lavorare in nero per sopravvivere.
A Georgina Molina – rifugiata nicaraguense – questi due colori, il rosso e il nero, suscitano ricordi dolciamari, poiché rappresentano sia il tanto atteso permesso di lavoro, sia il regime sandinista dal quale è fuggita dopo aver subito torture da parte della polizia. “Orribile, orribile, orribile. È una cosa che non dimenticherò mai”, dice in una videochiamata. Per lei è ancora difficile stare davanti a degli agenti di polizia dopo quello che ha passato nel suo Paese insieme ad altri due compagni. Quando in Spagna ha ricevuto la documentazione da parte di un agente in borghese è scoppiata a piangere. “La richiesta di asilo è stata un’odissea. È stato come se non mi sentissi più trattata come un essere umano. Ti senti uno scarafaggio, un ratto, un sacco di immondizia”, racconta con la voce incrinata dall’emozione. Dopo tre lunghi e duri anni di battaglie, Georgina ha ottenuto l’asilo a febbraio.
Oggi Georgina pensa che ci siano molti aspetti da migliorare, come la mancanza di “formazione sui diritti umani” e un “minimo di umanità” da parte di chi aiuta persone che si trovano in una situazione di grande vulnerabilità. Ha un’opinione simile anche Carmen Caraballo: “I poliziotti che sorvegliano la fila non hanno rispetto, ti urlano addosso. I funzionari, quelli che stanno dentro, invece, sono più sensibili. Immagino che ne avranno sentite tante di storie…”. Il funzionario che le ha fatto il secondo colloquio ha però esordito borbottando con un “eccone un’altra” che, racconta Caraballo con voce rotta, l’ha molto ferita: “Io non vorrei essere seduta qui, vorrei essere a casa mia dall’altra parte dell’oceano con la mia famiglia, a lavorare”. Molte persone, esasperate, cercano di ottenere appuntamenti con ogni mezzo, anche pagandoli 80 euro l’uno. Un’organizzazione decisamente diversa rispetto a quella attuale, messa in campo per accogliere i profughi ucraini.
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(Foto di Tetiana SHYSHKINA su Unsplash)
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