Di fronte alla possibilità, sempre più frequente in queste ultime settimane, che personaggi famosi risultino positivi al coronavirus, si nota spesso una reazione sprezzante. Si tratta spesso di uomini che, non appena scoprono di essere stati infettati, si affrettano a diffondere messaggi del tipo “il virus non ha capito con chi ha a che fare”. Se da un lato è comprensibile, e forse anche positivo, diffondere messaggi incoraggianti, sembra prevalere la volontà di nascondere la paura, di dimostrarsi “più forti del virus”: in una parola nascondere i propri sentimenti e le proprie fragilità. È uno schema piuttosto diffuso nella nostra società e nel nostro tempo, che riguarda soprattutto gli uomini. Socialmente è difficile per un uomo non mostrarsi fermo, deciso, imperturbabile, pena il rischio di essere giudicato non all’altezza della situazione, non in grado di gestire ogni problema “da uomo”, per l’appunto. L’esempio più eclatante in questi giorni è quello del presidente degli Stati Uniti, Donald Trump, che ha detto e fatto tutto ciò che si può per negare di avere un qualunque problema derivante dall’essere risultato positivo al tampone. «Non abbiate paura del Covid – ha detto –. Non lasciate che domini le vostre vite». Un messaggio poco rispettoso verso coloro che, legittimamente, ne hanno paura (un sentimento che serve a proteggerci dai pericoli), e le cui vite ne sono inevitabilmente “dominate”, magari perché hanno perso delle persone care. Allo stesso modo, il calciatore Zlatan Ibrahimovic, a sua volta risultato positivo al test, si è affrettato a twittare: «Il Covid ha avuto il coraggio di sfidarmi. Pessima idea». Al di là dei singoli casi, il fenomeno sembra legato a un problema più generale. La giornalista Susan Gubar scrive di «una generazione di ragazzi cresciuta con l’idea di non piangere o lamentarsi, di non indulgere in emozioni confuse». Gubar riporta le parole dello scrittore Anthony Trollope: «Gli uomini raramente dicono la verità su ciò che gli succede dentro, anche ai loro amici più cari. Si vergognano di provare dei sentimenti, o meglio di mostrare che sono turbati da sensazioni di una certa intensità».

È sempre stato così?

Come spiega la scrittrice Sandra Newman, le cose non sono sempre andate così. La figura dell’eroe che si lascia andare a un pianto liberatorio è frequente nella letteratura del passato, dall’antichità al Medioevo e oltre. Piangere non era un elemento che mettesse in dubbio il valore o le capacità del personaggio in questione. Né c’è traccia, nelle diverse storie, di tentativi da parte degli uomini di trattenere o nascondere le lacrime. È un elemento che si ritrova un po’ dappertutto nella letteratura, con un’unica eccezione: la Scandinavia. Ancora nel 1628 si racconta di parlamentari inglesi in lacrime nel leggere una lettera del re che minaccia la dissoluzione del Parlamento. Ma quindi, dove sono finite tutte queste lacrime maschili? Non c’è una risposta definitiva. Probabilmente molti fattori hanno contribuito al cambiamento culturale. Nel ‘700 si ha traccia di “cultori della sensibilità” che esortavano gli uomini a lasciar fluire con più libertà le proprie lacrime. Segno che qualcosa era già cambiato.

Piangere fa bene?

Secondo diversi studi ci si sente meglio dopo aver pianto, ma solo in due casi: se si piange da soli, oppure in compagnia di qualcuno che dà sostegno. Farlo in pubblico, o con qualcuno che non dimostra empatia, fa sentire ancora peggio. Certo, piangere non è di per sé qualcosa di buono o cattivo. A livello sociale potrebbe essere complicato, per esempio, avere a che fare con colleghi di lavoro che piangono con troppa facilità. Siamo naturalmente portati a provare empatia, e quindi le lacrime di qualcun altro ci fanno sentire a disagio. Uno studio degli anni ’80 ha trovato una correlazione tra i livelli di stress ed esperienze di pianto in contesti “non appropriati”. L’altro lato della medaglia è che un altro studio ha dimostrato che chi piange più spesso è anche più in grado di provare più alti livelli di soddisfazione. Inoltre, chi piange di solito trova qualcuno che si preoccupa dei suoi sentimenti e gli offre supporto. Piangere poco vuol dire avere meno probabilità di trovare tale supporto. Questo sembra essere correlato a un maggiore tasso di suicidi negli uomini, e a una maggiore propensione a sviluppare dipendenze da alcol e droghe.

(Foto di Tom Pumford su Unsplash)