Il tema dell’immigrazione è stabilmente al centro del dibattito politico ed è particolarmente seguito dai media da un po’ di tempo. Il fatto è piuttosto inedito nel panorama dell’informazione in Italia, visto che solitamente la questione viene trattata e dimenticata a intervalli regolari. Difficile credere che sia in corso un cambiamento di sensibilità in seno alla classe politica (e giornalistica) verso il problema. Di sicuro, la tornata elettorale in alcune regioni e capoluoghi di provincia ha fatto sì che i candidati e i loro sostenitori fossero portati a parlarne, ma è difficile capire se nel prossimo futuro l’argomento continuerà a restare centrale. Pur rischiando di aggiungere un ulteriore post a un dibattito che ormai ha preso l’inevitabile china della polarizzazione (semplificando ci sono due opposti schieramenti: immigrati sì vs. immigrati no), ci preme sottolineare come sia assolutamente fuori discussione il dovere di accogliere persone che arrivano sulle nostre coste via mare, dopo un viaggio iniziato probabilmente settimane prima via terra. Queste persone sono una minima parte di coloro che tentano la fuga dal proprio Paese.
Prima degli scafisti essi devono affrontare il regime di libertà ridotto che vige in molti Stati africani (tra cui Eritrea e Somalia, ex colonie italiane), pagando chi li aiuti a fuggire, ad attraversare strade e deserti, a rischiare la prigionia e i maltrattamenti in Libia, per poi, se sono abbastanza robusti e fortunati, salire a bordo di un’imbarcazione precaria che, se tutto va bene, in una dozzina di ore li porterà alla costa più vicina. È facile e al contempo da incoscienti proporre di bloccare le imbarcazioni, rimandarle indietro, rimpatriare, ecc. Per prima cosa bisogna affrontare l’emergenza di chi arriva. Anzi, prima ancora che arrivino, se avvistati in mare, devono essere soccorsi, come sta cercando di fare la missione europea Triton, che ha sostituito Mare Nostrum. Triton, a dispetto del fatto di disporre di molti meno mezzi rispetto a Mare Nostrum, è comunque soggetta alle cosiddette “leggi del mare”, e quindi se avvista un’imbarcazione in difficoltà la soccorre, nel caso facendosi aiutare dalla marina italiana. Insomma, nonostante i mezzi siano inferiori e la consegna sia quella di pattugliare, in realtà le persone coinvolte nella missione stanno dando un contributo importante a salvare vite, per quanto possibile.
Al di là delle elezioni (e di chi è in costante campagna anti-immigrati e anti-rom, come il segretario della Lega Nord Matteo Salvini), un altro motivo che ha reso inevitabile parlare di immigrati è il fatto che in questi giorni siano particolarmente visibili. Bloccati come sono nelle stazioni di Milano e sugli scogli di Ventimiglia, il tema diventa automaticamente d’attualità. Parallelamente si aprono più canali informativi: quello sulla diplomazia, che segue l’indecoroso processo di “scaricabarile” per cui l’Italia non è interessata a trattenere chi transita dal proprio territorio, mentre i Paesi di destinazione (nel caso di Ventimiglia la Francia) obiettano che se gli stranieri sono sul suolo italiano è lì che devono registrarsi e quindi (secondo il regolamento di Dublino) lì devono restare finché la loro condizione non viene chiarita. C’è poi il canale delle facili emozioni, per cui si pensa subito alle malattie che la presenza di stranieri può contribuire a diffondere. Minacce infondate, come già ampiamente appurato.
La realtà è che dobbiamo farci carico del problema, impegnarci ad accogliere chi per disgrazia si è dovuto mettere in viaggio e aiutarlo a proseguire (ricordiamo infatti che la stragrande maggioranza di chi arriva nel nostro Paese è intenzionato a proseguire verso altri Stati europei). La vera emergenza non è l’invasione che secondo alcuni staremmo subendo, ma quella umanitaria che produce ogni giorno questo riversarsi di persone dall’Africa (e dalla Siria) all’Europa
Chiudiamo con le parole del sociologo Zygmunt Bauman, in un’intervista pubblicata da Repubblica ieri: «In tempi di accentuata mancanza di certezze esistenziali, della crescente precarizzazione, in un mondo in preda alla deregulation, i nuovi immigrati sono percepiti come messaggeri di cattive notizie. Ci ricordano quanto avremmo preferito rimuovere: ci rendono presente quanto forze potenti, globali, distanti di cui abbiamo sentito parlare, ma che rimangono per noi ineffabili, quanto queste forze misteriose, siano in grado di determinare le nostre vite, senza curarsi e anzi e ignorando le nostre autonome scelte. Ora, i nuovi nomadi, gli immigrati, vittime collaterali di queste forze, per una sorta di logica perversa finiscono per essere percepiti invece come le avanguardie di un esercito ostile, truppe al servizio delle forze misteriose appunto, che sta piantando le tende in mezzo a noi. Gli immigrati ci ricordano in un modo irritante, quanto sia fragile il nostro benessere, guadagnato, ci sembra, con un duro lavoro. E per rispondere alla questione del capro espiatorio: è un’abitudine, un uso umano, troppo umano, accusare e punire il messaggero per il duro e odioso messaggio di cui è il portatore. Deviamo la nostra rabbia nei confronti delle elusive e distanti forze di globalizzazione verso soggetti, per così dire “vicari”, verso gli immigrati, appunto. […]
Siamo chiamati a unire e non dividere. Qualunque sia il prezzo della solidarietà con le vittime collaterali e dirette della forze della globalizzazione che regnano secondo il principio Divide et Impera, qualunque sia il prezzo dei sacrifici che dovremo pagare nell’immediato, a lungo termine la solidarietà rimane l’unica via possibile per dare una forma realistica alla speranza di arginare futuri disastri e di non peggiorare la catastrofe in corso».