C’è bisogno di una disciplina che insegni a essere costruttivamente in disaccordo? Vista la piega che sta prendendo il livello del dibattito sui social network, forse sì. Si interroga in proposito il giornalista Jesse Singal, in un articolo per l’Atlantic.
L’illusione di Internet
Quando nei primi anni ’90 Internet si diffondeva grazie all’invenzione di Tim Berners-Lee, il World Wide Web, gli intellettuali riponevano grandi speranze nel futuro dell’interconnessione globale. Uno spazio di condivisione potenzialmente infinito e privo di confini, pensavano, avrebbe permesso di allargare a dismisura la messa in comune del sapere e dato avvio a nuove forme di comunicazione immediata e allargata su scala globale. Purtroppo non è andata così. O meglio, è andata anche così (comunque la si veda Internet ha avuto un impatto sconvolgente sulle nostre vite e sulle forme di interazione, rendendo facili e alla portata di quasi tutti cose che prima richiedevano lunghi passaggi). Allo stesso tempo, l’esperienza delle interazioni online ha mostrato che c’è una discreta confusione tra ciò che vuol dire conversare, scambiandosi opinioni anche in contrasto tra loro nell’ambito di un confronto civile, e ciò che si fa molto più spesso negli spazi di “socialità” online: litigare insultandosi.
Un problema di significati
Uno dei problemi rilevati da Singal, che nel suo articolo attinge a piene mani dal blog dello svedese John Nerst, è il fatto che spesso online si confrontano persone che vengono da ambienti molto lontani tra loro, che usano le stesse parole per intendere concetti diversi. Per esempio, tra gli accademici il white priviledge (letteralmente “privilegio bianco”) ha un significato molto preciso. Si riferisce al fatto che, in media, le persone identificate come “bianche” nella società statunitense godono di alcuni benefici rispetto al resto della popolazione. Che è diverso dal dire che la totalità della popolazione di pelle “bianca” è in assoluto privilegiata. Se un’espressione del genere viene usata su Twitter, per esempio, da un ricercatore universitario, il rischio è che molte persone al di fuori di quell’ambiente la intendano in un altro modo, e reagiscano di conseguenza (cioè con rabbia, soprattutto se si percepiscono come “bianchi che non godono di alcun privilegio”).
La nascita dell’erisologia
Nerst inventa un neologismo, erisology (letteralmente “erisologia”, dal nome della divinità greca della discordia Eris), per definire una disciplina che consiste nello studio dell’essere in disaccordo, più precisamente del “disaccordo fallimentare”. Con questa espressione si intende uno scambio alla fine del quale le persone non hanno fatto passi avanti nella comprensione reciproca, e che quindi si è giocato tutto sul parlarsi addoso l’un l’altro, magari scagliandosi insulti. Al suo grado massimo di insuccesso le persone coinvolte non solo non si avvicinano, ma si respingono reciprocamente.
Il potere della dissociazione
Attingendo da concetti discussi in matematica e in psicologia, Nerst descrive il decoupling (“dissociazione”) come la capacità di rimuovere elementi di contesto estranei dal centro della discussione: associazioni, ideologie, preconcetti. È facile essere portati a inserire nella discussione elementi che non c’entrano, ma che sembrano utili a difendere meglio la propria posizione. Riuscire a fare decoupling vuol dire portare l’erisologia al suo massimo livello, riportando il discorso nell’alveo del confronto razionale. Ovviamente non è facile, e la conseguenza paradossale è che spesso certe associazioni sono così forti che si preferisce rinunciare ad affrontare certi argomenti pur di evitare polemiche.
C’è chi non è d’accordo, ovviamente
Visto l’oggetto della disciplina, l’erisologia non poteva trovare tutti concordi. Singal cita il parere di Emily Thorson, scienziata politica dell’università di Syracuse, secondo cui è da dimostrare il fatto che la “conversazione incivile online” sia un problema così critico da rendere necessaria una disciplina per risolverlo «Molte delle disfunzioni comunicative a cui assistiamo online – dice Thorson – sono un sintomo di un più ampio e antico problema sociale, che riguarda anche (ma non solo) razzismo e misoginia. Faremmo meglio a investire il nostro tempo occupandoci di questo». Thorson fa poi notare che certe conversazioni a cui si assiste online non sono affatto disfunzionali. Chi vi partecipa lo fa per un solo proposito: affermare la propria idendità. Questo implica spesso umiliare l’interlocutore che ha (o sostiene) una diversa identità. Prima di chiamarle “disfunzionali”, dunque, bisogna mettersi d’accordo su quale sia l’obiettivo di chi vi partecipa.
(Foto di Mihai Surdu su Unsplash)